VENEZIA 63 – "Summer Love" – di Piotr Uklanski (Fuori concorso)

Visionario già dalle prime inquadrature, con volti e corpi quasi innaturali, dal putrescente algido e incandescente del sangue e dello sporco, Ukalsnki non osserva solo il mondo, ama farlo mostrare. E non c'è nulla di male vederlo divertire a disfarsi delle tipiche icone del genere, ridacchiando sulla morte, col tripudio da pochade dei colori.

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Il giovane artista Piotr Uklanski, raffinato compositore di arte visuale, approda per la prima volta al cinema, con Summer Love, un western polacco – il primo nella storia del paese – che lascia incantati, perplessi al primo colpo. Quasi a ricordare che il genere ha ancora lunga vita, che si può anche morire per tornare a ricordare.

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Un curioso fuorilegge giunge in un piccolo villaggio del West. La calma apparente del posto viene così disturbata dalla sua inquieta presenza. Al suo seguito un cadavere e una taglia sulla testa da incassare. Uno sceriffo invecchiato prima del tempo che non accoglie l'arrivo dell'intruso. Ed è subito caccia al biondo, senza per questo rinunciare all'amore per la donna della sua vita – la procace barista del saloon – e per la sua bottiglia. Pochi personaggi, un unico immenso paesaggio. Come nella migliore tradizione del cinema leoniano. Ma non solo questo del regista romano: un vero e proprio tributo ad uno stile, ad una poetica, ad un certo modo di fare cinema come atto di contemplazione dello sguardo, del puro visivo. Una scelta coraggiosa, che potrebbe anche lasciare infastiditi da un richiamo così esplicito, morboso e ostinato in alcuni momenti. Persino a riflettere sulla scelta di una precisa liturgia del primi piani, in molti frammenti di pellicola collocati a bella posa lì dove Leone li aveva immaginati. La macroscopia poi, atto di rivelazione del fotogramma, scandisce anch'essa, senza tradire, una analoga formula ritmica del montaggio di C'era una volta il West, ad esempio. Ma mai ugualmente con la stessa tipologia espressiva: ed è qui che Uklanski reinventa il genere, traducendo quelle stesse ossessioni morbose di Leone, in qualcosa di più ironico, scanzonato. Summer Love: l'esperimento di come un'arte come il cinema possa raccontarci le altre, senza farcelo capire. Fa gioco con eleganza l'esperienza dell'artista Uklanski, scultore architetto di un minimalismo tronfio di sé e della sua forma, sempre abbagliato, ammaliato dal bulbo oculare, dal colore dello sguardo, dalle infinite variabili e deformazioni. Magistrale l'impeto visionario già dalle prime inquadrature, con volti e corpi quasi innaturali, dal putrescente algido e incandescente del sangue e dello sporco. Ukalsnki non osserva solo il mondo, ama farlo mostrare. Mostrarsi. E non c'è nulla di male vederlo divertire a disfarsi delle tipiche icone del genere, ridacchiando sulla morte, col tripudio da pochade dei colori. Vero protagonista: il cadavere carcassa "interpretato" con divertita ironia da un inatteso Val Kilmer, consapevole del ruolo che riveste – topos di un genere che da morto non si arrende nella sua immobilità, non si decompone: guarda, continua a filmare – e divertito di sentirsi, una volta tanto, spettat(t)ore. Tra la sala e la proiezione il dialogo è denso, attanagliante, con squarci di metacinema – la bionda che sbircia da dietro un rosso sipario e ci guarda curiosa – e deliranti inframezzi di spirito art-dèco. La canzone-tema del film ci accompagna ovunque: persino sulla forca. Ma abbiamo sempre tutto il tempo, tutto quello che vogliamo per uscire da una quinta. Ma troppo bello è stare lì. Magari morti e dissepolti, al posto di Val Kilmer: per godercela tutta quella festa. Fino in fondo. Per poi ricominciare.


 

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