VENEZIA 66 – "Domaine", di Patric Chiha (Settimana della Critica)

Nadia e Pierre sono zia e nipote, e s’incontrano ogni sabato per recarsi sempre allo stesso parco. Sembrano quasi seguire una ritualità  misteriosa, governata dalla matematica. Finché non subentra la malattia e, con essa, il caos. Un film molto incentrato sulle parole che, paradossalmente, vengono condannate dalla stessa protagonista: le parole creano disordine; solo la matematica può rivelare l’intima struttura delle cose.

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«Senza la matematica sarei un liquido senza contenitore», dice Nadia all’inizio del film, prima di perdersi poco a poco: del vino versato, che non si adatta più alla forma della bottiglia che lo conteneva. E proprio il vino la fa ammalare di cirrosi. Male fisico, contrapposto a male filosofico, all’incapacità di trovare un senso nel reale. «Il caos ha invaso tutto, è entrato nel cervello», dichiara più avanti a Pierre, il nipote adolescente. I due s’incontrano ogni sabato, per recarsi sempre allo stesso parco, fare il solito percorso, ripetutamente. Il movimento delle maree e brevi didascalie scandiscono lo scorrere del tempo che, pur avanzando, fa apparire tutto immutato, soggetto agli identici riti, le stesse abitudini. Pierre è affascinato dalla torbida originalità della zia (interpretata da una Béatrice Dalle perfetta nel ruolo), e sembra non poter fare a meno di quegli incontri, nonostante sua madre li disapprovi. Per Nadia è lo stesso: ha bisogno di essere ascoltata da qualcuno, un’anima più pura di lei, che le restituisca il senso delle sue parole con uno sguardo, smarrito ma devoto. Domaine è impregnato di matematica, parte dalla matematica, con continui richiami alle teorie di Kurt Gödel. Eppure, il film è intriso di una sensualità strisciante, che disturba. Il rapporto fra zia e nipote, che non ha quasi nulla di fisico ed è prevalentemente cerebrale, denuncia in realtà qualcosa di più profondo, un bisogno tutto umano che con l’asettica matematica non ha nulla a che fare. Ci si chiede come sia possibile coniugare numeri e sentimenti: la stessa Nadia dimostra una natura fatta di contrasti, contraddizioni. Parla continuamente per ossimori: la matematica è bella e insignificante, e anche le persone suscitano in lei emozioni opposte: «Lo amo e lo odio, lo disprezzo e lo rispetto». Vorrebbe scorgere un’armonia in tutto: nell’andatura incerta dei vecchi che non ritrovano la via di casa, nei giovani che ballano in discoteca. Caos e ordine si alternano ritmicamente. Se le parole sembrano disgregare l’armonia, i parchi sono i luoghi deputati a ricucirla. È lì che Nadia si reca per rilassare la mente: fra quei colori autunnali, quell’intrico di tronchi e di rami, in cui lo spettatore cerca di intravedere un senso, invano. Prima un parco cittadino, ordinato; poi un bosco, infine una fitta foresta austriaca. Quando «il caos ha invaso tutto», il parco non rappresenta più il luogo in cui ci si ritrova, ma in cui ci si perde. Definitivamente. E Domaine (primo lungometraggio del giovane regista austriaco Patric Chiha, che ha studiato fashion design per poi dedicarsi al cinema e dirigere documentari e lungometraggi, selezionati in diversi festival cinematografici) può essere visto anche come un romanzo (o meglio, un film) di formazione: come Nadia gradualmente si annulla, così Pierre piano piano si addentra nella vita adulta, impara a scoprire la sua sessualità. E diviene egoista.
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