VENEZIA 66 – "Earth" di Ho Tzu Nyen (Evento speciale Corto Cortissimo)

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Mediometraggio vicino alla videoarte, il nuovo lavoro dell’artista di Singapore è una notevole immersione nel cuore dello “stare sulla terra”; ovvero: nell’esperienza del tempo. Il tempo è qui un fluido visivo/sonoro viscoso e magmatico, un paesaggio di rovine che lascia infiltrare qua e là sprazzi di luce.

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earthIl poliedrico singaporiano Ho Tzu Nyen, artista, videomaker, pittore e cineasta, è stato tra le rivelazioni della Quinzaine di Cannes 2009 con Here. Qui a Venezia ha portato un mediometraggio di circa tre quarti d’ora musicato dal vivo da un musicista giapponese, Yasuhiro Morinaga.
Una volta tanto, questa scelta non è un semplice valore aggiunto o un vezzo arbitrario. Earth infatti si basa tutto intero sulla corrispondenza tra un curatissimo sound design che affastella un magmatico tappeto di detriti sonori di varia provenienza (film anche: si riconoscono le colonne sonore della Duras, di Fellini, di Hitchcock…) e immagini di non minore caos pulviscolare.
Come si sarà già capito, siamo dalle parti della videoarte. La terra del titolo è un ammasso informe di corpi morti e/o addormentati che talvolta sussultano, rottami, fotocopiatrici, elettrodomestici, fili, lampade e rovine varie, tutte accatastate su un mucchio di pallet. Tutt’intorno, alberi e oscurità. La macchina da presa plana su questo quasi immobile “brodo terminale” (più che primordiale) con un movimento obliquo, continuo, lento e graduale, avvicinandosi, allontanandosi, scoprendo i brevi sussulti vitali che emergono di tanto in tanto. Il lento, raro e drammaticamente episodico e casuale farsi strada della vita in questo maelstrom visivo/sonoro è evidenziato dal lento farsi strada della luce, da fonti sempre circoscritte che allargano debolmente il proprio raggio d’azione, magari per spegnersi poco dopo.
È il tempo insomma che la fa da padrone – anzi l’esperienza del tempo, quella che fonda il nostro passaggio sulla terra. Un fluido viscoso come il tappeto sonoro che ci arriva alle orecchie, informe e granulare come il caotico paesaggio di rovine che ci si para davanti agli occhi, dove la vita è solo una flebile, contingente discontinuità che si accende e si spegne imprevedibilmente. Quanto allo spazio, beh, lui è completamente disfatto. Ma, a guardar bene, non è un quadro tanto angoscioso. Dall’acqua sporca che, nei primi istanti del film, si confonde col cielo stellato che vi viene riflesso, alla medesima acqua sporca del finale, qualcosa cambia. Alla fine, infatti, a essere riflesso sull’acqua è una poco precisata figura umana: e strappare un pezzo di spazio (cioè un’immagine) alla tirannia del tempo non è, per l’uomo, cosa da poco.
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