Venezia 80 – Vermin. Incontro con Sébastien Vaniček

Opera prima del regista francese, che utilizza l’horror per esplorare il mondo e l’immaginario contemporaneo in modo fresco e mai scontato. Noi l’abbiamo intervistato. Settimana della Critica

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A Venezia abbiamo incontrato Sébastien Vaniček, il regista francese di Vermin, film di chiusura della Settimana della Critica. Questo è il primo lungometraggio di Vaniček. Un ottimo punto di partenza per una narrazione fresca e contemporanea che gioca ottimamente con i canoni classici che siamo abituati a conoscere e apprezzare. L’immaginario creato dal regista è quello contemporaneo fatto di amore per le sneakers, per la trap e i videogames. I protagonisti sono residenti di un complesso popolare, e il regista ci ha detto come “l’intenzione principale era quella di mostrare una famiglia normale in un contesto difficoltoso e normalizzare la vita di queste persone, che è dignitosa e bella esattamente come quella di chiunque altro. L’idea che anche tutti i residenti possano far parte di una sorta di famiglia allargata vuole suggerire un’immagine di cooperazione piuttosto che di conflitto”.

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Sèbastien, questo è il tuo primo lungometraggio. Come è stato per te scoprire che il tuo film d’esordio sarebbe passato a Venezia?

È incredibile essere qui a Venezia. Quando la produzione mi ha chiamato per dirmelo non volevo crederci. Perché è un horror girato in casa, oltre ad essere il mio primo vero lungo. Sono veramente grato ed emozionato per questo incredibile viaggio.

Come avete lavorato alla sceneggiatura e all’interpretazione?

È stato molto facile lavorare insieme perché siamo tutti della stessa generazione, e il feeling è nato spontaneamente. È facile parlare e comunicare. A mio parere nel cast prima di ottimi attori ho trovato bellissime persone, ed è stato fondamentale. Il fatto di essere tutti coetanei ha aiutato molto, perché eravamo molto concentrati sullo stesso obiettivo; quello di creare il miglior prodotto per questa generazione.

Sempre riguardo la contemporaneità e gli aspetti del presente, penso che Vermin sia molto centrato in questo. Infatti è presente un immaginario fatto di videogames, colonna sonora trap e sneakers. Ed è fondamentale raccontare il presente anche attraverso le nuove forme o tendenze.

Assolutamente. Ho scritto il film pensandolo per le nuove generazioni. Ho scelto le loro canzoni, volevo il miglior prodotto da offrire per avere un modo di interfacciarsi con le immagini. Anche quando abbiamo pensato alla costruzione del set o degli ambienti, abbiamo sempre tenuto in conto il fine ultimo, che è quello di portare qualcosa per i giovanissimi e adattarlo a loro.

Il cinema horror parla da sempre al presente, esponendo criticità e problemi sociali portandoli a galla. Nel tuo film c’è anche questo aspetto (penso alla violenza della polizia o al contesto dei personaggi)? O puntavi solo a un prodotto di intrattenimento?

Sicuramente pensavo di fare un buon film d’intrattenimento. Col mio sceneggiatore, Florant Bernard, abbiamo pensato a come inserire questo sguardo sull’attualità. Abbiamo guardato Get Out per prendere ispirazione e seguire l’idea geniale che c’è alla base. Ci sono molti livelli di scrittura e certamente volevamo esplorare il confitto tra polizia e abitanti di queste residenze popolari. Tutti i monster movie raccontano la xenofobia in un modo o nell’altro. Nel mio caso la connessione tra i ragni e la violenza sistematica è la paura del diverso, il reagire in fretta senza pensare; che poi è ciò che realmente uccide e ferisce. Vermin racconta proprio questo. Il non comprendere cosa si ha davanti, farsi prendere dal panico e agire con rabbia e paura.

Ci sono autori o registi horror contemporanei dal quale sei partito o hai preso ispirazione?

Sicuramente Green Room di Jeremy Saulnier. Ho imposto al cast di vederlo. Green Room non è considerabile un horror perché si tiene su un contesto reale abbastanza marcato, mentre io ho voluto inserire questa invasione di ragni per aggiungere l’elemento sovrannaturale.

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