#Venezia74 – Controfigura, di Rä di Martino
Il remake impazzito di The Swimmer. Metacinematografia di un film metacinematografico, autoriflessione spinta fino al punto estremo, in cui ogni riflesso è opaco. Cinema in giardino
“Vado in vacanza ora… forse sognando la California…”, canta Mino Di Martino in Giallo tropicale. È il 1984 e Di Martino è da anni uno dei protagonisti della scena musicale underground romana: prima con i Giganti, poi l’Albergo Intergalattico Spaziale creato con la moglie Edda “Terra” Di Benedetto, il Telaio Magnetico con Franco Battiato… più di trent’anni dopo, la sua canzone ritorna dalla periferia dell’impero, grazie alla figlia, l’artista Rä di Martino, che rende omaggio alla maiuscola del padre nel suo primo vero film lungo. Anche perché Controfigura pare sposarsi perfettamente alle parole di Giallo tropicale, sospeso com’è in una specie di vacanza forzata, in quel limbo smarginato che c’è tra la preparazione e l’azione, tra l’idea e la realizzazione, la fatica del set e il nitore dell’opera compiuta. “Lo sbarco in Normandia / è una produzione di Hollywood”. È la finzione che copre la distanza tra la realtà e la realizzazione…
L’intuizione è fantastica: immaginare un remake di The Swimmer (Un uomo a nudo), il film di Frank Perry del 1968, tratto da un racconto di John Cheever. Burt Lancaster in costume che decide di tornare a casa tuffandosi di piscina in piscina, il lusso del denaro e il vuoto profondo dell’animo e degli affetti. Ecco, la di Martino decide di spostare l’ambientazione della storia Marrakech, in quel Marocco che è già stato teatro di altri suoi lavori. Perché – spiega – “Marrakech vuole accontentare tutti, dai miliardari russi, arabi o europei che si sono costruiti un paradiso privato recintato e sicuro, ai vecchi e nuovi hippies che vagano per la vecchia città in cerca di nostalgia”. La felicità per tutti, regalata a metri cubi d’acqua, piscina dopo piscina. In questo scenario sospeso tra il Mediterraneo e il deserto, il Burt Lancaster della di Martino è Filippo Timi, attore di presenza e di diaframma. Ma con lui c’è anche una controfigura, chiamata per testare le inquadrature: è Corrado che a poco a poco, prova dopo prova, comincia ad acquisire sempre più consapevolezza del suo ruolo e della sua tenuta scenica. Nel caos del set, mentre tutti, produttori troupe interpreti, si arrovellano e si “confondono”, Corrado pensa di poter diventare il vero protagonista del remake. Ma del film progettato non rimangono che i frammenti, schegge impazzite che si mescolano ai ciak falliti, ai dietro le quinte, i make of più improbabili, i momenti di pausa, tutte le questioni di impalcatura e di apparato. Metacinematografia di un film metacinematografico, cosa vuole dire “meta”? ci si chiede, autoriflessione spinta fino al punto estremo, a quella deriva in cui ogni riflesso è opaco. Del resto di questa partita aperta del “remake”, visto come problematico e impotente atto d’amore, aveva già dato uno splendido saggio Vincent Dieutre con Viaggio nella dopo-storia. Cosa fare e come fare, ancora oggi? E a che titolo? La di Martino ci tiene a moltiplicare e a mescolare i livelli di finizione, giocando con la “realtà” del set. Lo stesso Corrado non è ovviamente una pura e semplice controfigura balbuziente, ma l’artista e fotografo Corrado Sassi. E poi gli attori marocchini che rifanno la medesima scene dei protagonisti italiani, Timi e la Golino, le corse nel deserto e i tuffi in piscina, Timi che bestemmia per i non professionisti a favore di telecamera, un uomo che nuota nell’acqua di una diga come immagine primaria. È abbastanza complicato dar conto di tutto, nella follia generale di un “testo” che dichiara in ogni istante la propria impossibilità, l’assurdità stessa di ogni tentativo di chiusura. Il film è una pratica aperta, avventurosa. A cui, forse, non corrisponde un’adeguata libertà visiva. Ed ecco un limite. L’immagine resta uniforme, ancora troppo nitida, netta, nonostante la consapevolezza del disastro.