#Venezia74 – L’ordine delle cose, di Andrea Segre
Cinema civile che spiega tutto, in cui si sente lo scarto tra lo sguardo dei personaggi e il territorio geografico, da sempre elemento riconoscibile nell’opera di Segre. Proiezioni speciali
Il film di Andrea Segre affronta in maniera diretta il cinema civile, riprendendo quasi frammenti narrativi da La prima neve, quello del bambino in fuga dalla guerra in Libia che si incontra nel bosco col ragazzino di dieci anni che ha da poco perso il padre. Che guarda alla tradizione italiana, specialmente Francesco Rosi (Le mani sulla città) ma che sembra impantanarsi a spiegare in maniera dettagliatissima i fatti. Come se lo spettatore avesse bisogno di continui dettagli, elementi da ricostruire.
Al centro della vicenda c’è Corrado (Paolo Pierobon), alto funzionario del Ministero degli Interni specializzato in missioni internazionali contro l’immigrazione clandestina. Viene inviato il Libia dal governo con il compito di arginare i flussi migratori da quel paese. La missione è complessa e lui si muove tra i luoghi di potere e i centri di detenzione. In più incontra Swada (Yusra Warsama), una donna somala rinchiusa in prigione e che gli chiede aiuto per arrivare in Finlandia per raggiungere il marito. Lui si trova così in crisi: seguire la legge o aiutare una persona in difficoltà?
Cosa c’entra Blood Diamond con L’ordine delle cose? Niente, purtroppo. Forse un certo cinema italiano dovrebbe spingersi al di là del meticoloso lavoro di ricerca (la prima idea della storia risale a 4 anni fa) e superare i pur nobili intenti civili. In L’ordine delle cose si avverte uno scarto tra lo sguardo sui personaggi e il territorio geografico (la Libia, Padova, Roma). Quello che ha segnato i due precedenti film di finzione (Io sono Li e La prima neve) e i documentari del regista, evidente nel rumore del fiume, nelle statue, nelle carrellate sulle strade in Libia, nella pista dell’aeroporto. Sono tutti frammenti visivi che però non esplodono con la storia come avviene nel monumentale film di Edward Zwick. Eppure ci potevano essere degli elementi interessanti, come i movimenti del corpo di Pierobon che si esercita al video con la scherma.
La denuncia serve certamente a porre altre domande. Ma il film non trascina dentro. Anzi, resta schiavo dei suoi silenzi, chiuso nelle immagini video del PC, accenna a zone mélo con la romanza de La Tosca di Giacomo Puccini. Ma il cinema di Corsicato, che invece sa essere sfacciatamente kitsch, è lontano. In più si avverte la durata. Per non negare lo spazio necessario a nessun personaggio, certo. Ma ne risente tutta l’economia del film. La preghiera ad Allah, il racconto di Corrado alla figlia dello sciopero della fame dell’uomo della camorra sono alcuni esempi di lungaggini forse eccessive. E sembra esserci sempre un gesto di troppo prima dello stacco del montaggio: Corrado che si toglie gli auricolari, il direttore del carcere che continua a chiedere il caffé anche dopo che il protagonista se ne è andato. Con gli attori in parte, ben chiusi dalla sceneggiatura scritta dal regista con Marco Pettenello. Dove però manca la polvere, il sangue, l’odore della merda della corruzione. Che non può essere tirato in ballo con dialoghi tipo: “Non le piace questo odore? È Africa”.