#Venezia77 – Guerra e Pace. Incontro con Martina Parenti e Massimo D’Anolfi

Massimo D’Anolfi e Martina Parenti presentano a #Venezia77 un documentario che affronta la questione della rappresentazione audiovisiva della guerra e quindi della memoria. In Orizzonti

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La domanda da cui siamo partiti io e Massimo per girare il nostro documentario è stata: perché mai conservare immagini di guerra se poi si continua comunque a fare la guerra? Alla fine la risposta che ci siamo dati è che conservare serve a ricordare e ricordare serve a non subire”. Con queste parole Martina Parenti introduce il concetto di rappresentazione della guerra, tema cardine di Guerra e Pace, documentario girato con il compagno Massimo D’Anolfi e presentato a Venezia77 nella sezione Orizzonti. “L’idea” racconta D’Anolfi “è nata a Berna 5 anni fa. Io e Martina passeggiavamo nel quartiere delle ambasciate e osservavamo i palazzi dalla tipica architettura locale, che in fondo però, con tutte le bandiere appese, si ergevano comunque come delle vere e proprie mappe sul mondo. Inizialmente quindi eravamo partiti dall’idea di fare un film sulla diplomazia, chiedendoci che valore può avere oggi  la diplomazia, e se il  il cinema può essere un elemento di mediazione. Per questo non potevamo non partire dal regista Boleslaw Matuszewski, che è stato il fotografo ufficiale dello Zar Nicola II. In particolare da un aneddoto che racconta della visita del presidente francese Félix Faure allo Zar. Successivamente ci fu un incidente diplomatico perché Bismark rimproverò Faure per non essersi levato il cappello davanti allo Zar e quindi per non aver rispettato il protocollo. Ma Matuszewski, grazie alla moviola poté vedere che in effetti Faure si era levato il cappello. Anche per questo disse che la storia sarebbe stata fatta per immagini, inventando in un certo senso il concetto di archivio. Quindi da questi punti, dalla diplomazia che ha a che fare con le immagini e quindi con l’archivio, abbiamo iniziato a pensare al nostro film”.

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Per fare Guerra e Pace, raccontano i due registi “ci abbiamo messo tre anni e mezzo. Ben tre Ministri, se vogliamo essere precisi“. Martina Parenti definisce subito il film un “film impalcatura”: “Un film che si mostra come un’impalcatura sulla guerra, perché di fatto, anche se di guerra ce n’è tantissima, ci troviamo sempre in luoghi di pace, come su delle impalcature.”  Strutturato in quattro capitoli ambientati in luoghi differenti, il film inizia nell’Istituto Luce dove vengono visionati i materiali relativi alla guerra in Libia del 1911: “Ci sembrava interessantissima la corrispondenza della guerra di allora con la situazione attuale in Libia. Gli archivi sono pozzi ricchi e profondi, in cui sono conservate milioni di immagini. Qui c’è stato di grande ispirazione Roberto Toscano e il suo libro La violenza, le regole”. Emerge in questo capitolo l’urgenza di indagare il punto di vista e quindi l’oggettività del racconto e dell’archivio storico. Una volta constatato il punto di vista, e quindi la scelta di riprendere qualcosa in un certo modo piuttosto che in un altro, che ne è della verità dell’immagine?  “Le immagini della guerra in Libia di quegli anni, sono immagini estremamente pilotate ma non per questo non vere. Non c’è bisogno di cercare la verità in quelle immagini perché la verità è semplicemente quello che appare davanti a te mentre guardi. Vanno ricercati piuttosto i barlumi di potenza, va riconosciuta la potenza di in un’immagine piuttosto che un’altra” continua D’Anolfi, definendo il filmare sempre “un atto violento”.

Nel secondo capitolo cambiamo luogo e ci ritroviamo all’interno dell’Unità di Crisi della Farnesina, improvvisamente catapultati in un nel momento del film che per D’Anolfi e Parenti “ha il ritmo dei film d’azione“.  “Non è stato affatto facile accedere perché non erano mai entrate telecamere prima, a parte quelle del Tg ovviamente” spiega Parenti. I due documentaristi riprendono da vicino giornate vivissime all’interno dell’Unità, nella quale sono fondamentali le immagini, soprattutto legate alle mappature dei luoghi di guerra e alla geolocalizzazione. “Fra un’immagine e l’altra il film affronta in un certo senso un secolo di guerra” continua D’Anolfi. Nel terzo capitolo infatti ci spostiamo a Ivry-sur-Seine, appena fuori Parigi, dove il Ministero della Difesa francese ha creato un’accademia per giovani militari che vengono formati allo studio della produzione audiovisiva delle immagini di guerra, studiando quadri del Cinquecento o foto della Guerra in Vietnam americana. Ritorna anche qui la questione del rapporto con la verità, e ancora più interessante di un discorso etico nella ripresa relativo alla scelta di riprendere la guerra. E nel quarto capitolo alla Cinémathèque suisse, ritroviamo la questione primaria della testimonianza che deve divenire memoria, in un momento di contrapposizione fra immagini e parole, fra racconti di sopravvissuti ai campi di sterminio e immagini durissime. Ed in questa alternanza, la riflessione sulla testimonianza orale che una volta svanita troverà ancora spazio nelle immagini che “vanno custodite negli archivi e sempre interpretate, altrimenti “rimangono cieche”.”

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