Wendy, di Benh Zeitlin

Zeitlin rilegge Peter Pan, tornando ad ostinarsi sui corpi dei suoi attori. E ancora il distacco come filo conduttore, l’importanza del saper lasciare andare così cara a Barrie. A #RomaFF15

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Dopo 8 anni da Re della terra selvaggia, il regista statunitense Benh Zeitlin, accompagnato alla sceneggiatura dalla sorella Eliza, torna dietro la macchina da presa con Wendy, presentato al Sundance 2020. Un film che potrebbe benissimo essere inserito in una sorta di duologia con Re della terra selvaggia, come se fossero due opere compagne, due film sperduti nel fiabesco mondo di Benh Zeitlin. Wendy è la storia di Wendy Moira Angela Darling, figlia di Angie Darling, padrona di un diner situato in una zona indefinita dell’America, e in un tempo che, pur non essendo quello della fiaba di James Matthew Barrie, non è neanche ben delineato come nel caro Hook, con cellulari, aeroplani e elementi di modernità. In Wendy il tempo è sospeso. Fuori dal diner scorgiamo solo delle rotaie, quasi fossimo al principio di tutto, con la vita che brulica là dove passa il treno. Luoghi e tempi sospesi, tema cardine per Barrie e questione molto cara a Zeitlin, in entrambi i suoi film. E Peter Pan può fungere da interessante chiave di lettura, da ponte fra Wendy e Re della terra selvaggia. Il rimaner sperduti, indomiti, selvaggi. Il mondo che urge, quando si è bambini. La ricerca ossessiva di una Madre e l’accettazione del dolore che costringe a crescere, laddove la crescita non va intesa come invecchiamento ma piuttosto gioita come rafforzamento.

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Che poi la grandezza di Barrie sta nella capacità di farci assaporare la dolcezza di un’infanzia eterna, costringendoci al contempo a riconoscerne il pericolo; quel non lasciare andare tentatore come il canto delle sirene di Ulisse, che non a caso tornano in Peter Pan. Zeitlin sembra restituire questa duplicità già a partire da Re della terra selvaggia, ma in Wendy si serve esplicitamente di Barrie, centellinando gli elementi fantasy e insistendo su luci, costumi e musiche epiche che ci incantano, pur rivelandoci al contempo l’inganno dell’incanto. Perché l’isola di fatto non c’è. Così come la baraccopoli dove cresce Hushpuppy, protagonista di Re della terra selvaggia, che è sì una meravigliosa culla in cui vivere tutti insieme, ma anche un luogo mostruoso in cui crescere.

Zaitlin ribadisce la sua poetica. Affida nuovamente a una bambina il ruolo principale e il pensiero che guida e chiarifica, esplicitato in entrambi i film con il voice over delle protagoniste. D’altronde a pensarci bene, il motore in Peter Pan è Wendy, laddove Peter è l’incoscienza bambina che rimane, bene o male che sia, ferma. Il regista ritorna su elementi primordiali, la natura prima Madre, le storie che si tramutano in pitture rupestri. E ancora i richiami alla letteratura, con Marc Twain sempre presente e l’eterna domanda: qual è la vera la civilizzazione? E ancora bambini come unici custodi della verità, la ricerca di un tesoro come nei Goonies e quel procedere su rotaie verso l’abbandono della fanciullezza, com’era nell’incredibile Stand By Me di Rob Reiner…e allora aperture a King e a tutto un certo cinema americano che sembra non esistere più, se non nella rimaneggiamento costante della citazione, di cui Stranger Things è l’esempio primo.

Ma alla fine di tutto, la vera forza del film di Zeitlin sta in quella che potrebbe essere (a torto) considerata una debolezza manieristica e cioè l’attaccamento ostinato ai corpi dei suoi attori, come un non voler staccarsi della macchina da presa. Dagli incredibili volti bambini a quelli anziani di cui non possiamo non riconoscere la triste bellezza, quando sono i bimbi cresciuti in Wendy o gli alcolisti di Re della terra selvaggia. Una regia di contatto che invece ci rapisce inesorabilmente. Da qui forse il distacco come filo conduttore, quasi a voler ribadire la lezione di Barrie, l’importanza di saper lasciar andare. D’altronde Wendy inizia con un contatto fra due corpi. Il legame primo, il più importante di tutti, destinato fin dal primo respiro a rompersi: quello fra madre e figlio, la cui mancanza un secolo fa, fu tradotta da James Matthew Barrie in quel bacio impossibile da cogliere, sospeso sulla bocca della mamma di Wendy, John e Michael.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.6 (5 voti)
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