"A proposito di cinema pericoloso" – "Sideways", di Alexander Payne

E' da denuncia questo misfattore del cinema odierno per come maltratta la provincia americana e i suoi colori, per come sa trasformare tutto quello che vede in qualcosa di ambiguo, di artificiale, di brutto, riducendolo a repellente colabrodo.

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Almeno questa volta speravamo di ricrederci su Alexander Payne, sì insomma, tanto per gettare una volta per tutte nel dimenticatoio le brutture senz'anima di A proposito di Schmidt e la furbizia intellettualistica e modaiola di Election. Già, speravamo, ma certo che di fronte ad una cosa brutta, inutile e spocchiosa come quest'ultimo Sideways verrebbe voglia di gettarlo alle ortiche questo cinema e di distruggerlo, perché, credeteci, è vile e pericoloso, subdolo e mortificante. E non perché sia piatto e inerte, smorto e fastidioso, ma per l'aria apparentemente svagata con cui si appropria lentamente dei corpi raccontati ostentandoli come cavie da laboratorio, chiudendoli in un cinema che boccheggia, freddo e scostante come poche altre cose viste di recente. Dai dialoghi dei due amici in macchina, alle fermate in diversi agriturismi americani alla ricerca del Pinot perfetto, le immagini di Sideways ci suggeriscono un'ipotesi forse nemmeno troppo peregrina: Payne è un extraterrestre, un'entità non meglio identificata in prova qui da noi, un esaminatore attento e sfasato delle abitudini di noi poveri terrestri, del nostro comportamento tout court. E sì, non possono esserci altre spiegazioni per un cinema che anche di fronte ad un banale campo/controcampo di due amici che parlano, sa restituirti un senso di distacco, di freddezza e di artificiosità che non avrebbe nemmeno il peggiore Haneke (e abbiamo detto tutto) della situazione. Payne di fatto non sa filmare, non sa sondare, ma è imbattibile nel congelare. Ecco, il suo cinema è un asettico negozio di surgelati andati a male, uno squallido limbo in cui gravitano corpi nauseanti e pretesti narrativi che girano in tondo, tanto per Payne l'importante è sbeffeggiare, schernire, prendendosi gioco di ogni forma d'umanità che gli capiti a tiro (pensate soltanto alla fine che fa la ragazza cinese, a come venga manipolata e infine gettata via..). Non basta. Sideways infatti assume ben presto le forme di un certo cinema americano dei Settanta (lo split screen sui vigneti e sui due amici in macchina, le sequenze apparentemente libere, ma in realtà finte e manipolate dei due che camminano lungo una arteria trafficata) che viene come rivisto da un laboratorio scientifico che vaglia, sminuzza, bisturi in mano e ghigno mostruoso pronto ad esplodere in una oscena risata. Eccoci al punto allora, osceno…Sì lo sguardo di Payne sembra assumere di volta in volta le orribili fattezze della cosa carpenteriana, un ammasso di membra mutilate svuotate di viscere e di ogni traccia di sangue che si impossessano come in un incubo di ogni fisicità, gettandoci addosso un miscuglio innominabile di rabbia e di risentimento. E' da denuncia allora questo misfattore del cinema odierno per come maltratta la provincia americana e i suoi colori (la sequenza davvero meschina in cui la cameriera grassa viene adocchiata da uno dei protagonisti e subito dopo l'immagine del marito che, nudo, insegue la macchina alle prime luci dell'alba…), per come sa trasformare tutto quello che vede in qualcosa di ambiguo, di artificiale, di brutto, riducendolo a repellente colabrodo.  Girano dei veri e propri mascalzoni nel cinema di oggi, ma la puzza emanata dal loro cinema è talmente forte che diventa sin troppo facile smascherarli e rigettarli in quel triste nulla da cui sono venuti.

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