Roald Dahl: si vive solo due volte
Roald Dahl è troppo piccolo e allo stesso tempo troppo grande, costretto a sperimentare la solitudine di chi è rimasto intrappolato tra due mondi, quello dell’infanzia e quello degli adulti. La realtà non è fatta a sua misura, le storie invece lo sono
Troppo grandi, non per l’esercizio di potere o per altezza, il cui primato è detenuto dagli adulti prevaricatori e dai disgustosi abitanti del Paese dei Giganti del Il GGG (1982) e allo stesso tempo troppo piccoli. Sono gli ingegnosi eroi dell’universo di Roald Dahl. Bambini, animali o semplicemente oppressi che gustano il sapore della vendetta negli spassosi schiaffi a sorpresa che bruciano in tanti dei finali dei cattivissimi racconti che compongono le raccolte Someone Like you (1953), Kiss Kiss (1960), Switch Bitch (1960) e Eight further tales of Unespected (1980). Il troppo, l’eccezionalità che riempie le pagine delle opere per ragazzi di Dahl e anima molti dei suoi racconti per adulti, è il divertente e liberatorio affronto subito ad opera dell’anarchia insita nell’innocenza da un sistema che si nutre della paura per potersi perpetuare. Un affronto intollerabile agli occhi di chi esercita – secondo Dahl immancabilmente in maniera tirannica e repressiva – l’autorità. Siano essi i ricchi come il signor Hazel di Danny il campione del mondo (1975), i direttori di collegio o di scuola, che trovano la loro apoteosi nella violenza debordante della signorina Trinciabue di Matilde (1988), o la cariata istituzione famigliare, con le zie seviziatrici di James e la pesca gigante (1961), con i piccoli mostri senza più umanità creati dalla perversione dei loro genitori de La fabbrica di cioccolato (1964) e con i matrimoni tiranneggiati da spietati aguzzini, alla fine crudelmente puniti dalla loro sottomessa metà, nei racconti William e Mary, L’ascesa al cielo, Cosciotto d’agnello, La scultura. Non a caso le orrende streghe, quelle vere, che potenzialmente si nascondono dietro ad ogni donna che indossa un paio di guanti e che hanno fatto gridare chi non è stato capace di leggere oltre il testo ad una presunta misoginia, si accaniscono ferocemente per estirpare, con terrificante violenza, il potere sovversivo che brilla nella natura selvaggia e libera di ogni bambino. E pur tradendo nel finale il romanzo, nella sua versione de Le streghe Nicolas Roeg non si lascia sfuggire l’occasione di dar corpo, con le sue inquadrature minacciosamente distorte, alla smania distruttrice che anima il sadico mondo della “maturità”.
Ma non è facile come sembra. La strada da percorrere per raggiungere il tanto desiderato atto di rottura è lunga e disseminata di terribili pericoli. Giganti spaventosi contro bambini indifesi ma furbissimi, orfani terrorizzati dagli adulti, spietati divoratori di sentimenti contro esseri schiacciati dall’egoistica voracità dei loro carcerieri. Le opere di Dahl sono veri e propri riti d’iniziazione, che traboccano di tutta la violenza e la festa che s’incrivono in ogni trapasso. Bisogna aver il coraggio di cambiare pelle, come mostra Herny Selick nella sua versione di James e la pesca gigante, per diventare padroni del proprio destino. Bisogna esser trasformati in topi per capire che “non importa chi sei né che aspetto hai. Basta che qualcuno ti ami”. E’ nella capacità di resistenza, da non confondere mai con l’accettazione, che si nasconde il segreto della sopravvivenza. Lo imparano Matilde, James, Mr. Fox di Furbo il signor Volpe (1970), le scimme de Gli Sporcelli (1980), il protagonista de Le streghe (1983) e lo impara anche Roald Dahl, che vede nella resistenza, come recita il racconto Un colpo di fortuna, la qualità numero tre necessaria per diventare un romanziere. Eppure ancora non basta, “dovete avere una fervida immaginazione”. Solo nella potenza rigeneratrice della fantasia, che non si sostituisce alla realtà, ma la compenetra trasfigurandola, è possibile trovare la mappa segreta per vivere nel mondo. Sono le storie impossibili a difenderci dalla vita, quelle dove si impara a vedere senza occhi, come Henry Sugar che, grazie ad un libro (Dahl non si stanca di sottolineare la liberazione offerta dalla letteratura in contrasto con la televisione), diventa capace di guardare oltre e trovare, proprio dentro al suo cuore, un’energia creatrice in grado di reinventare il mondo. Il nostro e quello di Roald Dahl. Da questo nascono tutte le sue opere, dal bruciante desiderio di fuga dalle ferite che infligge la vita (la perdita del padre e la morte della primogenita Olivia, la malattia del figlio Theo e il devastante matrimonio con la prima moglie Patricia Neal). E dal desiderio di beffarda rivalsa.
Se la realtà non è fatta a sua misura, le storie dunque lo sono. Come Willy Wonka, Dahl è il padrone indiscusso ed egocentrico del suo universo e non fa alcuno sforzo per nasconderlo, tanto nei romanzi quanto nei racconti. Non solo con la sua voce irresistibile e dispotica, che non ammette repliche, che non scende mai a compromessi mentre continua a dirci senza mezzi termini chi amare e chi odiare, che ci convince a condividere le sue ossessioni, come l’orrore suscitato dalla visione di un volto ricoperto dalla barba o l’inequivocabile segno di bassezza morale che si nasconde dietro un paio di labbra ripugnantemente umide. Non solo ritagliandosi il ruolo di guida ideale (quel padre vicario scintillante che Dahl ha continuato a cercare per tutta la vita) che mostra la strada della ribellione nella cristallina linearità di un ordine regolatore basato sulla netta contrapposizione dei due principi opposti, immediatamente riconoscibili: il cattivo e il buono, come mostra, in una sintesi perfetta, la bilancia che giudica, insieme alle uova giganti, la viziata Verruca e il suo stolto genitore, nel primo magnifico adattamento cinematografico de La fabbrica di cioccolato firmato da Mel Stuart. Ma anche non potendo fare a meno di fondere indissolubilmente la finzione con il dato biografico, che ritorna, si distorce e si trasforma in un campo di battaglia dove Dahl continua a lottare contro i suoi fantasmi per reinventare la sua esistenza.
E’ questa la storia che racconta Wes Anderson. L’animazione a passo uno di Fantastic Mr. Fox attraversa il romanzo per ritrovare l’immagine nascosta del suo autore. Il carismatico, elegante ed atletico Mr. Fox è Dahl, accompagnato nel film, come nella vita, dalla seconda moglie Felicity ed animato dall’impossibilità di sottrarsi al richiamo della sua natura “selvatica”. Anche se ha perso la coda nello scontro a fuoco con il diabolico mondo della superficie (del resto chi può dire di non aver perso qualcosa nella battaglia contro la realtà?), Fox/Dahl non ha perduto la radicalità della sua ribellione. E ci invita tutti a rimanere con lui, per sempre. “Costruiremo un piccolo villaggio sotterraneo, con strade e case indipendenti. E ogni giorno io andrò a far la spesa per voi. E ogni giorno, mangeremo come re”.
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bellissimo ritratto, grazie
BRAVO ROALD!