FILM IN TV – “La colazione dei campioni”, di Alan Rudolph

la colazione dei campioni
L’identità, la metanarrativa, i falsi miti della società americana, la follia. Le tematiche del romanzo di Kurt Vonnegut sono troppe e troppo complesse per essere trasposte senza sacrificare qualcosa. E ciò che il film sacrifica è proprio la più impalpabile, ma la più importante: l’atmosfera delirante e visionaria, che Alan Rudolph traduce in chiassose velleità con morale.
Giovedì 17 ore 22.50 Sky Cinema Comedy

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la colazione dei campioni«Questo è il racconto dell’incontro di due uomini bianchi, solitari, macilenti e abbastanza anziani, su un pianeta che andava rapidamente morendo». Inizia così il romanzo di Kurt Vonnegut da cui il film è tratto.
Sono gli anni Settanta, e in un’ipotetica città americana che rappresenta il coacervo dello squallore e della mediocrità occidentali – chiamata significativamente Midland City – Dwayne Hoover (Bruce Willis) è condannato a vivere, mentre Kilgore Trout (Albert Finney) è invitato ad andare. Per Dwayne, proprietario ricco e famoso di un autosalone, nonché uomo di mezza età nel pieno di un esaurimento nervoso, Midland City è dunque una gabbia; per Kilgore, scrittore trasandato e sconosciuto, invitato inaspettatamente a partecipare al primo Festival delle Arti della città, costituisce invece un punto di approdo, e il riconoscimento di una carriera.
E il film, come l’opera letteraria, si dipana fra queste due anime: il romanzo di formazione e il racconto on the road. Perché nel finale sia Dwayne che Kilgore, mediante processi diametralmente opposti, ritrovano sé stessi e si riconciliano con la vita: Dwayne, arrestato dopo un violento attacco di follia, sembra quasi rinsavire e capire che «finché non muori devi solo vivere»; Kilgore, tentando di infrangere uno specchio, si addentra in un’altra dimensione, nel mondo fantastico delle sue creazioni letterarie. All’esterno, un cartellone pubblicitario sottolinea che «non è troppo tardi per entrare». O, parafrasando, per vivere la vita al meglio delle proprie possibilità.
Quello dell’identità è un tema centrale nell’opera. Non a caso, lo specchio non è solo un simbolo, ma svolge un ruolo narrativo importante. Sostitutivo dello specchio è il cartellone pubblicitario con il primo piano di Dwayne, che sorride in maniera forzata e – verrebbe da dire – disperata. In una scena del film, i colleghi di Dwayne festeggiano il suo compleanno indossando una maschera che riproduce goliardicamente la sua faccia sorridente: ma l’effetto, tutt’altro che comico, è straniante per lo stesso spettatore, che dapprima si chiede se la moltiplicazione di quel volto non indichi l’impazzimento del protagonista.
Speculare allo smarrimento dell’identità è la satira della società americana, che sembra disperdere questa identità in un mare di parole e immagini. L’ossessività con cui sono ripetuti gli spot televisivi di Dwayne, o con cui vengono inquadrati i cartelloni che immortalano la vacuità della sua vita, denuncia costantemente i falsi miti americani, che il mondo della televisione ha reso sacri. Ogni personaggio del film è schiavo del successo, o perché lo ha ottenuto, o perché lo anela disperatamente. Personaggi minori, come Celia e il carcerato, credono che il mondo patinato della pubblicità sia reale: la prima si esprime solo attraverso slogan televisivi, il secondo ha eletto Dwayne a suo idolo, solo per averlo visto svariate volte nelle réclame.
Lo stesso regista si appropria di questa ipertrofia di immagini e suoni: l’eco che rimbomba nella mente di Dwayne, gli ululati che aprono e chiudono il film, il motivo di Stranger in Paradise che ritorna ossessivamente, i primissimi piani che rendono i volti dei mascheroni grotteschi, la radiografia del cervello dei protagonisti. Tutto concorre a riprodurre il caos che annebbia la mente dei personaggi: «su un pianeta che andava rapidamente impazzendo» dovrebbe essere la chiusa dell’incipit del romanzo. Perché tutti, dal primo all’ultimo, auspicano il ritorno di un’autenticità, e questo li rende folli, eccessivi, chiassosi. Emblematica la figura di Harry (Nick Nolte), che vive nel terrore che scoprano il suo gusto per il travestitismo. Nessuno si accetta per quel che è, soprattutto per il timore che l’altro possa indignarsi. Ma l’altro è troppo preso dal nascondere ciò che è per accorgersi che ognuno è diverso da ciò che sembra. Da qui si ingenera spesso un meccanismo da commedia degli equivoci, che smorza la serietà di certe tematiche. Tante, affastellate le une sulle altre in maniera disorganizzata, ridondante, retorica. Esistono romanzi troppo difficili da trasporre al cinema, proprio perché – una volta trasposti – a stento conservano la loro anima visionaria senza diventare altro. Alan Rudolph sceglie attori eccellenti, usa riprese originali, ma non restituisce le atmosfere di Vonnegut né il suo coraggioso sperimentalismo, e finisce col ripeterci fino a stordirci cose che, in fondo, già sapevamo. Proprio come fanno le tanto deprecate pubblicità.

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Titolo originale: Breakfast of Champions
Regia: Alan Rudolph
Interpreti: Bruce Willis, Nick Nolte, Albert Finney, Glenne Headly, Barbara Hershey, Lukas Haas
Durata: 110’
Origine: USA, 1999

Giovedì 17 ore 22.50 Sky Cinema Comedy

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