SPECIALE "TWO LOVERS" – Il diario di Leonard

Gray attraverso la classicità drammaturgica del suo cinema, celebra il fallimento della comunicazione anticlassica. I ricordi scanditi dal mezzo tecnologico e le forme di comunicazione a esso delegate

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Leonard Kraditor non fa che scrivere in Two Lovers. Eppure non lo vediamo mai usare la penna su un foglio bianco. Il suo è una sorta di Werther contemporaneo che cerca di parlarci attraverso una scrittura invisibile, spezzata, balbettante. Nel suo film (il quarto di una filmografia imbarazzante per magnificenza) più letterario, James Gray si affida a un personaggio totalmente incapace di comunicare in modo convenzionale. C’è un filo sottile e trasparente che lega il personaggio interpretato da Phoenix alla scrittura diaristica e all’ansia di trascrivere e documentare i propri tormenti amorosi. Sono tracce, impalpabili, attraverso le quali si potrebbe raccontare tutto il film di una vita. James Gray scolpisce le sue notti bianche di Brighton Beach lanciando il proprio alter-ego maschile nella sinfonia triste e assoluta di due amori complementari, segnati dalla privazione costante dei propri desideri, dove nessuno dei personaggi coinvolti riesce ad avere ciò che realmente desidera. Lo fa incastrando istanti di vita nella solidità del racconto letterario, ma privando il suo personaggio di una consapevolezza artistico-autoriale, o meglio ancora di una capacità di incanalare razionalmente la propria creatività energica a fini relazionali che non siano quelli – socialmente accettati – della famiglia borghese.
Così Gray attraverso la classicità drammaturgica del suo cinema, celebra il fallimento della comunicazione anticlassica. I ricordi scanditi dal mezzo tecnologico e le forme di comunicazione a esso delegate (le fotografie scattate da Leonard alla città e a Sandra, la foto incorniciata della donna un tempo amata, i messaggi telefonici scambiati con Michelle, la frase I love you che scrive col dito sul braccio di quest’ultima) finiscono con il frustrare la tangibilità di un contatto. Tutto rimane intrappolato nella visione soggettiva e idealizzata, nell’ossessione per il frammento poetico/mentale. In un modo o nell’altro è ancora l’ingenuità astratta in un desiderio appagato a travalicare la contingenza dell’esistere e dello scrivere.  La materia (e il cinema di Gray è fatto di materia, ma di una materia che sprofonda sempre nel buio di un set pieno di punti di fuga) fallisce anche nel feticcio consumistico dell’anello, incapace di avere un referente  “suo”, un proprio oggetto d’amore sincero (comprato per Michelle finirà tra le mani di Sandra). L’unica scrittura possibile nell’universo di Gray è allora quella che rimanda al cinema stesso (di Gray), alla costruzione certosina, quasi clinica, del proprio dolore, cioè quella che compie Leonard innamorandosi di Michelle, o quella altrettanto perfettamente chirurgica con cui lo stesso si lega Sandra. E’ solo attraverso la performance del corpo goffo e dispreratamente bugiardo di Phoenix (o la scrittura di un libro? o di un film?) che l’Uomo riesce a comunicare. Tutto il resto viene a perdersi nel dolore di ciò che non possiamo avere. E’ lo spettacolo che ci parla. Ed è un linguaggio che ci farà sempre innamorare… sul serio!

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