“La fine è il mio inizio”, di Jo Baier

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 Malgrado la collaborazione del figlio Folco alla sceneggiatura, la sintesi inevitabilmente riduttiva che esce dall’ultima opera di Tiziano Terzani non riconosce e non coglie la ricchezza delle implicazioni nascoste in questo testamento spirituale, cadendo nel paradosso di banalizzare il pensiero di un uomo che ha sempre ricercato con ogni forma di linguaggio di penetrare mondi lontanissimi dalla propria cultura e di restituirne un’immagine il più possibile autentica e non filtrata dagli stereotipi
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La fine è il mio inizio

Avvicinarsi a un qualunque scritto di Tiziano Terzani significa viaggiare tra le stagioni di una vita che sembra racchiudere mille esistenze diverse e altrettanto intense. Il suo percorso di giornalista, segnato dal rapporto viscerale che lo legava al continente asiatico, si confonde con la sua vita di uomo perennemente affamato di nuove mete, ossessionato dalla conquista di una pienezza di vita tale da escludere ogni abdicazione all’autentica conoscenza di sé. È questa tangibile energia dello spirito a rendere potenti le pagine di Terzani, a spingere a osservare da vicino il cammino di un uomo di cui si può non condividere il pensiero, ma che affascina nel suo guardare a ogni sconosciuta esperienza, compresa quella della malattia e della morte, come a un ulteriore viaggio verso la rivelazione di nuove e insospettate profondità del proprio essere. La fascinazione per l’ignoto e per la sfida che esso rappresenta è il significato ultimo sotteso al libro-testamento di Terzani, scritto insieme al figlio Folco. Nella quiete della sua casa nell’Orsigna quest’uomo sazio di vita aspetta con sincera curiosità l’atto finale dell’esistenza come l’avventura più sorprendente cui, a questo punto del suo percorso, potrebbe mai prendere parte. Restituire sullo schermo attraverso il semplice confronto tra padre e figlio la complessità di una testimonianza di vita in cui storia personale e storia universale si sono intimamente legate poteva rappresentare uno stimolante per quanto rischioso esperimento, ma il film di Jo Baier sceglie la via più facile e apparentemente più fruibile per il grande pubblico, accontentandosi di illustrare in immagini il lungo dialogo che riempie le oltre quattrocento pagine del libro. Malgrado la collaborazione di Folco Terzani alla sceneggiatura, la sintesi inevitabilmente riduttiva che ne esce non riconosce e non coglie la ricchezza delle implicazioni nascoste in questo testamento spirituale, cadendo nel paradosso di banalizzare il pensiero di un uomo che ha sempre ricercato con ogni forma di linguaggio di penetrare mondi lontanissimi dalla propria cultura e di restituirne un’immagine il più possibile autentica e non filtrata dagli stereotipi. Tutto il film finisce per essere veicolato da un racconto orale debordante nella forma quanto semplicistico e superficiale nella sostanza, cui nemmeno il pur bravo Bruno Ganz, condizionato da un doppiaggio anonimo e dalla presenza di un Elio Germano sorprendentemente spento, riesce a infondere un minimo di pathos. Le lunghe inquadrature a camera fissa, i pochi personaggi ripresi in un paio di interni o sullo sfondo del paesaggio toscano, non sono il segno di una ricercata purezza di sguardo che possa sostenere l’universalità di una testimonianza di vita, ma l’appiattimento su un linguaggio visivo che funge da semplice orpello alla parola. Un’opera che ha lo spessore di un audiolibro, in cui l’eredità umana e la coscienza spirituale di Terzani sfocano in una pseudofilosofia che ne svilisce la forza e il senso.
 
 
 
 
Titolo originale: Das Ende ist mein Anfang
Regia: Jo Baier
Interpreti: Bruno Ganz, Elio Germano, Erika Pluhar, Andrea Osvart, Nicolò Fitz-William Lay
Distribuzione: Fandango
Durata: 98’
Origine: Italia/Germania 2011
 
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