“Venere nera”, di Abdellatif Kechiche

venus noire
Vénus noire
è un film che, portando all’estremo il metodo di Kechiche, ne mette a nudo i limiti. Come già ne La schivata e Cous Cous, siamo di fronte a un cinema ossessivo, che tiene incollato lo sguardo sui corpi e sui volti, sui dialoghi e sui gesti. Un cinema che ricerca l’intensità nella durata.
Ma stavolta l’intensità, la passione, la sensualità scompaiono per lasciar posto a una sensazione di freddezza disarmante

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venus noireL’inizio è un tuffo al cuore. Non perché sia particolarmente bello ed emozionante. Ma “solo” perché ci riporta, direttamente e consapevolmente, a The Elphant Man di Lynch. Un’aula di dottori e scienziati pronti per una lezione accademica. Lì c’era un ‘mostro’ deforme, oggetto di curiosità e repulsione. Qui c’è il calco di una donna di colore, che fa bella mostra dei suoi glutei immensi e del suo prodigioso ‘grembiule ottentotto’. In ogni caso, il dato è tratto. Perché Vénus noire, quarto film di Abdellatif Kechiche, lancia immediatamente il suo proclama, offrendosi, programmaticamente, come una riflessione sullo sguardo e sui rapporti di potere che, tramite esso, si instaurano. La storia è vera ed è quella di Saartjie Baartman (interpretata dalla magnifica e florida esordiente Yahima Torres), la venere ottentotta, che ai principi dell’800 fece scalpore tra Londra e Parigi, finendo i suoi giorni in maniera drammatica. Solo nel 2000 le sue spoglie, riesumate, sono state accolte trionfalmente in Sud Africa, paese natale. Risarcimento troppo tardivo per un’anima perduta.

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Materia senza dubbio affascinante. La selvaggia gettata in pasto alla curiosità e alla lussuria dei ‘civili’ europei, costretta a esibirsi in squallidi spettacoli, sempre più osceni… E’ davvero un emblema. Uno stigma di carne sull’abiezione di una mentalità coloniale, che per secoli ha mascherato la crudeltà del suo dominio dietro giustificazioni ‘scientifiche’. E su questa materia Kechiche non mette in piedi una biografia, ma, seguendo gli ultimi anni di vita di Saartjie, costruisce un paradigma. Come a dire che il senso della vicenda conta più della persona, del singolo. Ecco. Dispiace, ma Vénus noire è un film che, portando all’estremo il metodo di Kechiche, ne mette a nudo i limiti. Come già ne La schivata e Cous Cous, siamo di fronte a un cinema ossessivo, che tiene incollato lo sguardo sui corpi e sui volti, sui dialoghi e sui gesti. Un cinema che ricerca l’intensità nella durata. Si pensi ad alcuni momenti di Cous Cous (il pranzo, il pianto di sfogo della nuora, la danza del ventre). Oppure ad alcuni incontri/scontri rap de La schivata. Qui abbiamo spettacoli su spettacoli, scene su scene che si ripetono con scarti e variazioni. Tanti piccoli passi verso il fondo, in un ritmo crescente come una danza tribale, come il movimento vitale e incontrollato dei balli di Saartjie. Eppure non c’è mai davvero trance, non c’è liberazione. Kechiche ci conduce in un vicolo cieco, dall'inizio alla fine. I temi del suo cinema ci sono tutti. L’incontro/scontro di civiltà, l’utopia dell’integrazione razziale e lo spettro della discriminazione strisciante, la sensualità istintiva e innocente delle donne. Ma stavolta l’intensità, la passione, la sensualità scompaiono per lasciar posto a una sensazione di freddezza disarmante. Lo sguardo di Kechiche non è quello indifferente o compiaciuto dei ‘carnefici’, ovvio. Ma stavolta è troppo scientifico, impegnato a dimostrare e far vedere la verità sepolta sotto la Storia, per abbracciare davvero la sua splendida creatura. Capito il concetto, si cerca uno spiraglio, un gesto. “E quando l’amore finisce, quel che resta è cenere”.  

Titolo originale: Vénus noire
Regia: Abdelatif Kechiche
Interpreti: Yahima Torrès, Andre Jacobs, Olivier Gourmet, Elina Löwensohn, François Marthouret, Michel Gionti, Jean-Christophe Bouvet, Jonathan Pienaar, Olivier Loustau, Diana Stewart
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 166'

Origine: Francia, 2010

 
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