SPECIALE "SOTTO UNA BUONA STELLA" – Case chiuse

sotto una buona stella
Gli ultimi film di Carlo Verdone continuano a raccontare la stessa cosa: l’esilio dell’autore dal mondo di oggi. Solitudini all'interno di case chiuse. Lo spazio/set si fa punto di partenza e punto di arrivo,  buia superficie claustrofobica dove mettere in scena una comicità forse anche datata ma sincerissima e funzionale per creare relazioni umane e morali ancora “vive”

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Gli ultimi film di Carlo Verdone continuano a raccontare la stessa cosa: l’esilio dell’autore dal mondo di oggi. Non sono tanto opere malinconiche – caratteristica peraltro sempre tangibile nella filmografia dell’attore-regista romano e anche qui innegabilmente presente – quanto trasparenti attestati di stanchezza. Verdone ormai gioca semplice. Sembra avere paura della nostra realtà, disorientato come può esserlo un padre che credeva di aver donato ai propri figli (il suo pubblico) un paese (un cinema?) migliore. Non ce l’ha fatta, come del resto quasi tutta la sua generazione di registi, attori, sceneggiatori, intellettuali, produttori. In cuor suo è uno dei pochi ad averlo compreso lucidamente e ad aver avuto la sincerità di trasformare questo “blocco” in poetica. E allora eccolo firmare tra alti e bassi una neanche troppo mascherata trilogia sull’isolamento. Da Io loro e Lara a Posti in piedi in Paradiso, fino a quest’ultimo Sotto una buona stella Verdone infila se stesso e i suoi personaggi dentro una casa, che diventa unico set possibile e necessario per mettersi alla prova come narratore e corpo comico. Soprattutto in questo suo ultimo film – probabilmente il migliore tra quelli citati – lo spazio chiuso si fa punto di partenza e punto di arrivo,  superficie claustrofobica dove mettere in scena una comicità forse anche datata, inevitabilmente novecentesca come osserva giustamente Pietro Masciullo, ma funzionale per creare relazioni umane e morali ancora “vive”.  Tralasciando i capolavori Io e mia sorella, Compagni di scuola e Maledetto il giorno che t’ho incontrato, o anche C'era un cinese in coma, Verdone probabilmente ha sempre compreso come il principale difetto del suo cinema  sia stato spesso quello di fermarsi un attimo prima, di non arrivare fino in fondo e negare alla sua filmografia tutto il dolore e la rabbia che si è sempre portata dietro. Oggi il suo cinema non sembra neanche più preoccuparsi di questo, in quanto è apertamente censurato. Verdone s’è chiuso dentro. E i suoi film sono piccole sedute terapeutiche con pochissimi esterni al

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termine delle quali c’è ancora un ultimo barlume di fede e di cuore.  Così facendo ha trovato vie di fuga invisibili ma assolutamente personali.

Sotto una buona stella già nel bellissimo prologo racconta di una casa, quella della festa iniziale, senza luce, immersa nel buio di un lutto imminente che segna subito lo spirito dell’oper
a. Il broker Federico Picchioni passa dall’improvvisa oscurità di un festeggiamento abortito a quella ancor più tetra e definitiva di una sala d’attesa in ospedale. Gli interni sono scuri, mortiferi e lo saranno in larga misura per tutto il resto di questa commedia sulla crisi della famiglia, tutta giocata sulla prossemica di salotti e stanze grigie, troppo piccole per far star bene il protagonista con i suoi figli, che infatti immancabilmente se ne vanno, ma sufficientemente grandi per sperimentare la resistenza di una comicità affettuosa. Come già accaduto nei film precedenti Verdone deve di nuovo reinventarsi un ruolo, (tornare a) essere padre, comico, regista e alla fine “potenziale” amante. Ma per riamare qualcuno Federico Picchioni/Verdone deve prima ammettere una volta per tutte la sua solitudine. Soltanto alla fine del film, rimasto solo e con i figli partiti per un altrove che non vediamo, verso un “paese per giovani”, il nostro può finalmente aprirsi all’innamoramento. Eppure anche in questo caso si tratta di spazi chiusi: l’appartamento di Federico e quello di Luisa/Paola Cortellesi. Due solitudini che si incontrano. Due luoghi/set da riempire e mettere in comunicazione con un bacio fuori la porta. Solitudini e “case chiuse”. Verdone le fa collimare con l’esperienza e la sincerità di chi sa che la "salvezza" può solo essere dettata dalla condivisione di un dolore comune o di una porzione di spazio sempre più piccolo, sempre più modesto… ma innegabilmente puro, reale.

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