E fu sera e fu mattina, di Emanuele Caruso

Interni con primi piani insistiti, sequenze vuote di senso (quasi una parentesi evanescente), dialoghi spesso amatoriali con inutili “spiegoni” sul vissuto dei personaggi principali. E' un peccato perchè l'idea di base non è malvagia: mostrare le reazioni di una comunità cattolica paesana di fronte all'approssimarsi dell'Apocalisse

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La fine del mondo in 49 giorni. Il peasino è Avila (nella realtà è La Morra in provincia di Cuneo), il territorio sono le langhe piemontesi, i protagonisti sono un prete inquieto, un sindaco flemmatico, una coppia che convive tra i pettegolezzi, una donna con il senso di colpa per un aborto, un giovane che ha causato involontariamente la morte di una amica per incidente stradale, un fratello Caino che uccide Abele per questioni di interesse. Emanuele Caruso giovane regista cuneese parte da un soggetto accattivante e da un embrione di sceneggiatura: attraverso l'azionariato popolare e la distribuzione sala per sala, prova a imporre all'attenzione una opera appassionata ma immatura. Il Cinema dovrebbe avere l'arduo compito di cogliere tra gli interstizi del visibile ciò che si nasconde dietro l'immagine significante. Dovrebbe anche staccarsi dal modello televisivo evitando i tranelli di una narrazione ripetitiva e ridondante che inciampa spesso in banalità e luoghi comuni. E fu sera e fu mattina (il titolo richiama La Genesi) fallisce proprio in questo, abolendo qualsiasi tipo di tensione tra le inquadrature e il narrato. Interni con primi piani insistiti, sequenze vuote di senso (quasi una parentesi evanescente), dialoghi spesso amatoriali con inutili “spiegoni” sul vissuto dei personaggi principali. E' un peccato perchè l'idea di base non è malvagia: mostrare le reazioni di una comunità cattolica paesana di fronte all'approssimarsi dell'Apocalisse. Le ipocrisie, le meschinità, le superstizioni, le nevrosi, le follie. A volte basta un taglio di luce, un silenzio, una pausa più prolungata perchè il cinema riesca ad evocare le cose, dare forma ai pensieri. Non è un caso che le scene più riuscite siano quelle in cui non viene azionato l'evidenziatore: il prete in Chiesa che porta il crocefisso ai piedi dell'altare e provoca la fuga di una parte dei pellegrini convenuti, la festa del paese con la folla danzante, lo sguardo contemplativo sul paesaggio dell'Alta langa di Prunetto. Quando al contrario si passa al dialogo serrato e allo sviluppo degli avvenimenti sembra di assitere a un telefilm amatoriale che cerca di imitare una puntata di Don Matteo. La tesi su una fede capace di vincere la caducità e finitezza umana e regalare al credente una seconda possibilità è esposta con granitica certezza senza possibilità di discussione. Allo spettatore non è lasciata alcuna autonomia, nessuna elaborazione di un significato profondo che possa emergere dalle diverse sequenze. In una scena in particolare il prete e due ragazzi stanno attorno al tavolo della cena in un silenzio interrotto prima dal rumore dei piatti e infine da due rutti: il tutto senza coerenza interna e nessuna evoluzione psicologica o comportamentale. Il film finisce stritolato nelle maglie perverse della fiction televisiva e rivela un nucleo diegetico pesante e limitato, che invece di donare purezza e slancio estetico, inibisce lo spettatore dal passare dalla posizione di teledipendente passivo a quella di fruitore attivo di una opera cinematografica.

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