AMERICAN SNIPER – War Zone

Sienna Miller, American Sniper
A scapito della presunta rigidità American Sniper sembra orchestrato da un dibattito invisibile che traccia i contorni tra Bene-Male, compagni-nemici, amore-odio, vita-morte, non per mescolarli ma per misurarne il peso, la stanchezza e quindi anche la drammatica differenza, necessaria per definirne la dialettica

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Dialettica – Dal gr. διαλεκτικ??χνη), propr. «arte dialogica». In senso generico significa l’arte del dialogare, del discutere, intesa come tecnica e abilità di presentare gli argomenti adatti a dimostrare un assunto, a persuadere un interlocutore, a far trionfare il proprio punto di vista su quello dell’antagonista.

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American Sniper è un campo di battaglia. Lo è per il protagonista, l’eroe militare Chris Kyle, che combatte in Iraq abbattendo un nemico dietro l’altro seminando sangue e morte in un contesto – cinematografico e “reale” – dove uccidere fa necessariamente parte delle regole d’ingaggio. Lo è ovviamente per i commilitoni di Kyle, i quali con la loro leggenda instaurano un ambiguo rapporto di adorazione ai limiti della morbosità patologica (il finale della storia con l’inaspettato Male in casa propria, il fuoco amico, in tal senso è lucido e spietato come nemmeno un  docuteorema diretto da Michael Moore avrebbe potuto essere) e lo è senza ombra di dubbio per i nemici: il cecchino Mustafa, i soldati terroristi, i bambini e le donne armate che Kyle giustizia con precisione chirurgica. In realtà il conflitto nel film di Eastwood è più complesso degli schieramenti drammaturgici e militari che la sceneggiatura mette in gioco. Del resto qui il set di guerra rimanda ad alcune location di The Hurt Locker e forse anche del Black Hawk Down di Ridley Scott e si costituisce con semplicità in una netta alternanza tra campo e controcampo legata al classico (che di certo non significa convenzionale) e inevitabilmente lontana dallo stile dei moderni Bigelow e Greengrass.   Una volta chiarito il discorso stilistico, che a Eastwood interessa soprattutto come mezzo per raccontare l’anima nera di questa storia biografica e non come strumento di fascinazione estetica, torniamo al “conflitto” che permea quasi ogni singola scena di questa controversa opera e che qui si sviluppa intrinsecamente dentro alla morale eastwoodiana.

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L’epicentro etico in questo Eastwood non è tanto il nazionalismo di cui viene accusato ma la dialettica interna a esso. American Sniper è un film che per tutta la sua durata sembra implodere in uno stress ideologico tra cosa significa stare dalla parte dell’America (quanto meno quella patriottica e interventista) e cosa significa mettere in dubbio questa stessa identità. La parabola di Kyle a un certo punto si celebra ed esaurisce per consunzione, diventa leggenda non tanto per i meriti di guerra quanto per la sua resistenza al dolore di uccidere, per la sua sopportazione a essere il cane pastore dei suoi compagni. Per tutta la durata del film l’eroe è fedele a questi ultimi, ma per farlo coltiva dentro di sé e dentro l’anima dell’operazione una crisi che non è tanto individuale (“non penso alle persone che ho ucciso, ma ai compagni che non sono riuscito a salvare”) quanto astrattamente metafisica. L’insostenibile climax voyeuristico che accompagna la sequenza del bambino con il bazooka in tal senso è emblematica per come trasforma l’atto di uccidere in drammatica scelta etica da condividere e/o respingere, relegando il personaggio in uno stallo che è già “morale” e che sembra riflettere più quella dello spettatore che del cecchino.

A scapito della presunta rigidità American Sniper sembra orchestrato da un dibattito invisibile che traccia i contorni tra Bene-Male, compagni-nemici, amore-odio, vita-morte, non per mescolarli ma per misurarne il peso, la stanchezza e quindi anche la drammatica differenza, necessaria per definirne la dialettica. Eastwood non affonda il suo sguardo nelle tonalità di grigio, ma nel contrasto netto tra le fazioni e i punti di vista. I personaggi di contorno (Marc, Taya, il fratello) assumono così una valenza tutt'altro che trascurabile, ma anzi profondamente spirituale. Il Chris Kyle di Bradley Copper si plasma in una concretezza monolitica spesso silenziosa, imperscrutabile, tutta giocata nell’apnea di un respiro spezzato, trattenuto, resistente, destinato a marcire nel suo eroismo. Alla sua “purezza” Eastwood contrappone una varietà polifonica complessa, incentrata sul dubbio, che prova a mettere in crisi le certezze di Kyle creando per contrappunto il dilemma morale.

La lettera del soldato Marc in tal senso assume davvero il ruolo di detonazione interiore, voragine intellettuale su una war zone che l’America gioca in casa propria contando il numero degli ideali da inseguire e quello dei caduti da celebrare. Gli è speculare quella del fratello minore del protagonista, il soldato che torna a casa fiaccato dalla guerra e dal mito che porta il suo nome. L’incontro tra i due al fronte è forse la scena più allucinata e dolente del film, quasi la premonizione di un accordo incompiuto nella famiglia/nazione, di una dark side psicotica depauperata di ogni esaltazione militarista. E in tal senso il personaggio più determinante è proprio quello della moglie Taya. Lei è davvero un’altra America: odia i Seals, vorrebbe il marito lontano dal fronte, prova a scardinarne la macchina risvegliandone accensioni umanistiche e sociali (la famiglia da mettere su insieme), forse lo vorrebbe lontano anche da quei reduci che lui Sienna Miller, American Sniperuna volta congedato decide di aiutare. Taya è l’antitesi del cecchino che ha sposato. La dialettica tra i due personaggi finisce con il riflettersi in un sorprendente scontro tra “generi” interno al film stesso. Se Kyle è ovviamente il war movie, Taya rappresenta il melò e le scene in America tra i due, durante le licenze che permettono al protagonista di tornare a casa con la famiglia, assumono l’opacità autunnale di tormentate scene da un matrimonio. Qui il conflitto potrebbe assumere persino i contorni teorici dell’intertestualità, con la casa e il fronte che assumono la valenza di due mondi opposti, regolati ognuno da uno spazio-tempo. I due mondi provano faticosamente a comunicare, stabilendo l’unica vera unità di misura possibile dell’andare in guerra.
Che American Sniper sia il film più onesto e complesso di Clint?

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