CANNES 67 – Eau argentée, Syrie auto-portrait, di Ossama Mohammad e Wiam Simav Bedirxan (Séances spéciales)

eau argentee

E' un film che narra la questione siriana come mai era stato fatto finora. Durissimo, a tratti insostenibile, una riflessione sulla brutalità dell’uomo, dei suoi gesti e comportamenti, sul dolore fisico e interiore delle persone e dei luoghi, sulla catastrofe, l’esodo, lo smarrimento. Il cineasta ritorna dietro la macchina da presa dopo 12 anni

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eau argenteeA Omar. Sottinteso, senza dirne il cognome, Amiralay. Uno dei grandi cineasti siriani scomparso nel 2011 (che anche Mohammad Malas ricorda con passione nel suo recente capolavoro Ladder To Damascus). Ossama Mohammad, il terzo cineasta imprescindibile del cinema siriano degli ultimi decenni, ha dedicato a Amiralay Eau argentée, Syrie auto-portrait con quel semplice “À Omar” posto dopo l’ultima immagine. Ma in questo lavoro che traccia un ritratto della Siria oggi, e un auto-ritratto del cineasta e della co-regista curda di Homs Wiam Simav Bedirxan, le parole, le scritte, le “didascalie”, sono visive quanto le immagini, e producono ugualmente senso.

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Eau argentée è un film che narra la questione siriana come mai era stato fatto finora. Un film durissimo, a tratti insostenibile, una riflessione sulla brutalità dell’uomo, dei suoi gesti e comportamenti, sul dolore fisico e interiore delle persone e dei luoghi, sulla catastrofe, l’esodo, lo smarrimento. Un film “di mille e una immagini filmate da mille e uno siriani e siriane, e da me”. Mohammad esplicita fin da subito la scelta che rende unico questo documentario. La maggior parte delle immagini proviene da YouTube. La qualità è in certi casi slabbrata. Sono immagini filmate in diretta da persone divenute filmaker loro malgrado, testimoni, e talvolta uccise. Immagini prime e ultime. Che dialogano con quelle registrate da Bedirxan, sfidando pericoli in Siria, e da Mohammad in Francia, dove il cineasta è esule dal 2011.

 

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Tornato alla regia dodici anni dopo Sacrifices, Ossama Mohammad ha realizzato non solo un film sulla tragedia del suo paese, ma contemporaneamente, rivendicandola in ogni inquadratura, una riflessione sul cinema, sul senso del filmare, dell’essere registi oggi. Lo sono, registi, senza nome, tutti coloro che hanno captato la lunga marcia della guerra, della rivolta nel corpo sfregiato della Siria. “Et le cinema fut”, dice una scritta. E il cinema nacque, una volta ancora, da/con quelle immagini anonime. Si può ri-cominciare solo dalla pluralità dei punti di vista orizzontali, vissuti dal di dentro. L’immagine della nascita di un bambino viene inserita più volte nel film. E chi lo fece, il cinema, morì, anche, con quelle immagini. Indelebili, e a memoria presente e futura. Mohammad, da lontano, le osserva, elabora, rende altre. Come in un lavoro di Gianikian e Ricci Lucchi e senza dimenticare il continuo cercare di Godard. Si tratta davvero di vedere dentro e oltre, in Eau argentée. E, come afferma Mohammad, di “vedere la voce”. Un’immagine è una e molte al tempo stesso. Dialoga con altre come le parole-diario che si scambiano a distanza il veterano del cinema siriano e la cineasta esordiente. Ci sono il musical, il realismo, il dramma, il cinema muto, mostra e spiega il regista. Immagini contro immagini. Esodi della Storia che producono campi e contro campi. E se a dei bambini bisogna far vedere un film, viene scelto quello con la scena di Charlot sul ring dove i due boxeur e l’arbitro si scambiano i ruoli. I bambini si divertono, ma c’è in essa tutto il senso della guerra. In un un’opera che, altrove, lavora sul materiale con pensiero d’avanguardia evocando anche l’Immagi-Nazione di Stan Brakhage.

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