Mohsen Makhmalbaf e il suo viaggio in Afghanistan”

Si è parlato poco di cinema nell’incontro con Mohsen Makhmalbaf ed altre personalità invitate al dibattito in occasione della presentazione del suo film “Viaggio a Kandahar”. L’attualità della vicenda afghana ha preso il sopravvento su tutto il resto

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Mentre scorrono i titoli di coda di “Viaggio a Kandahar”, qualche timido applauso comincia a farsi avanti tra le retrovia di una affollatissima sala Multimediale. Applausi irriconciliati con la propria vera natura, incoscienti di sé forse, nati come atto meccanico da praticare sempre, anche quando l’impressione generale è quella di aver assistito ad una riproduzione parziale e sicuramente non troppo ispirata di una certa realtà ancora sfocata. In realtà quello che ha regnato alla fine della proiezione è stato un senso di forte disagio, il sentimento più comune quello del sentirsi continuamente ecceduti da ciò che stava capitando fuori/dentro la sala. La (quasi) ricorrenza dell’attacco alle Torri Gemelle, la notizia di altri bombardamenti avvenuti su Kabul e sulla stessa Kandahar, luogo topico in cui far interagire la localizzazione finzionale con quella tragicamente reale. La conferenza stampa è comunque iniziata subito dopo con l’ingresso in sala di un frastornato Makhmalbaf e relativo interprete. Una conferenza stampa, è bene dirlo, alquanto sui generis. Invece di privilegiare infatti il classico domanda/risposta tra il regista presente in sala e relativi addetti ai lavori e non, si è assistito ad una vera e propria tavola rotonda sul tema presentato nel film (la condizione delle donne nell’Afghanistan dominato dalla presenza talebana) e soprattutto sul crocicchio dilemmatico in cui le coscienze di tutti si stanno agitando da qualche giorno in qua: bombardare o no l’Afghanistan?. Lo spazio riservato di consuetudine al regista del film presentato in sala si è così allargato alla presenza della protagonista del film, Nilofar Pazira, Emma Bonino, Miriam Mafai, il presidente dell’Aidos Daniela Colombo e Luisa Morgantini, rappresentante delle Donne in Nero.

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La vera protagonista del dibattito, capace di monopolizzare l’attenzione e il “tempo” di tutti, è stata proprio l’attrice protagonista del film, Nilofar Pazira, giovane donna afghana che ha avuto l’opportunità di studiare all’estero e di sfuggire così al tipo di vita condotto dalle afghane, costrette a nascondere il loro volto (e parte dell’intero corpo) con un lungo burka, vero e proprio retaggio medievale di un abbrutimento umano senza possibilità di (apparente) rimedio. Nilofar ci racconta così la sua esperienza e il suo essere fuggita dall’Afghanistan dove all’età di sedici anni ha tentato di rientrare con un’amica che però è stata imprigionata dai talebani. La condizione delle donne in Afghanistan, dice Nilofar, è quella di chi è continuamente ridotto a fantasma di se stesso, presenza invisibile agli occhi degli uomini che detengono il potere su tutto con la violenza inesauribile e la fede cieca dell’ignoranza. Quella della donna è però purtroppo una condizione che molte di loro vedono come un qualcosa di quasi naturale, di normale, e la pericolosità più evidente di questo atteggiamento è proprio quella che scaturisce dal non trovare più la forze di ribellarsi ad un’ingiustizia che permea di sé ogni strascico della vita di tutti giorni. Il suo racconto, scandito da un perfetto inglese frutto dei suoi studi in un “altrove” ben più sicuro della patria d’origine, ha toccato poi il punto dolente della discussione e si è incentrato sulle responsabilità americane e occidentali tout court nei confronti di una situazione che ormai va avanti da anni. L’ignoranza di ciò che sta accadendo ed è accaduto nel suo Paese, continua Nilofar, ha dominato l’Occidente per tutti questi anni, salvo poi tramutarsi in voglia di far cambiare le cose solo quando i propri interessi sono stati minacciati in modo serio ed inequivoco. Il bombardamento di oggi rappresenta quindi agli occhi della giovane attrice afghana un terribile atto di violenza che non serve a nessuno e che anzi provocherà un numero impressionante di vittime innocenti. La soluzione altresì andrebbe ricercata nella via umanitaria, aprendo scuole e diffondendo un po’ di quella cultura che sia in grado di scongiurare una volta per tutte la possibilità che cose del genere (allude chiaramente alla presenza talebana in territorio afghano) si possano verificare di nuovo. L’intervento della Pazira, articolatosi in diverse riprese e presentato qui in una possibile sintesi finale, ha ottenuto numerosi applausi e consensi, ed ha comunque avuto il merito di provocare negli altri ospiti delle reazioni, favorevoli o contrarie che fossero, a caldo. La Mafai ha preso la parola subito dopo, e dopo aver fatto una breve chiosa alle parole dell’attrice, ha subito alimentato la discussione dichiarandosi apertamente a favore di un intervento militare. Le sembra questa infatti l’unica possibilità per porre rimedio alla situazione creatasi in Afghanistan in questi anni. La Bonino è d’accordo con lei, ma il suo è un intervento che parte più da lontano e che verte soprattutto sulla necessità di una sensibilizzazione collettiva nei confronti dell’argomento. Necessità di un intervento militare quindi, accompagnato però da un’ altrettanto forte iniziativa politica e culturale. Daniela Colombo, presidente dell’AIDOS (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo), ha avuto parole di elogio nei confronti di Makhmalbaf e del suo film, ma ha precisato che una delle sequenze più importanti e cruciali, quella in cui delle infermiere di campo procurano delle protesi per gambe e braccia esplose in seguito all’impatto con le mine ed hanno rapporti diretti con la popolazione sofferente, manca di autenticità visto che nessuna donna straniera è ammessa negli ospedali di campo. Il pubblico in sala intanto si scaldava, si divideva apertamente sulle questioni trattate e sembrava aspettare con un fremito prolungato d’impazienza il grande assente della conversazione: Mohsen Makhmalbaf. Dopo aver preso per un solo attimo la parola all’inizio, il regista iraniano si è lasciato sopraffare dal profluvio di parole e di temi che sono stati affrontati dai suoi interlocutori. Poi prende la parola, per chiudere e dire l’ultima su quella che è la ragione della conferenza, dell’incontro, del dibattito: il suo film. La radiografia che ci fa dell’ Afghanistan in cui il film è stato girato è impressionante. Ci parla di un Paese dimenticato da Dio, un Paese in cui ogni giorno la popolazione inerme viene sopraffatta dalla crudeltà talebana che non conosce limiti, un Paese in cui non si può camminare tranquilli visto che una percentuale altissima del territorio è cosparsa di mine antiuomo. Fino all’ormai fatidico 11 settembre, continua il regista, l’Afghanistan è stato un Paese dimenticato da tutti, ignorato, occultato nell’oblio di una dimenticanza colpevole e fatale. E tutto ciò che sta succedendo oggi, non è altro che il risultato di tutti questi decenni di abbandono. Continuando poi nel suo appassionato discorso, Makhmalbaf ricorda che durante la lavorazione del film non sono state poche le difficoltà nel coinvolgere la popolazione del luogo a partecipare alle riprese. Soprattutto le donne, ci dice, erano restie nel mostrarsi, pur coperte da quella prigione visiva che è il burka, l’abito che copre completamente il loro corpo. Tutta la troupe ha comunque fatto del tutto per aiutare la popolazione, giungendo anche ad inviare sul posto generi alimentari e medicine. Riguardo il tema del dibattito, Makhmalbaf afferma perentoriamente che la soluzione al problema deve essere di tipo culturale ed economico. I tempi per porre rimedio alla situazione creatasi nel giro di tanti decenni non possono essere di venti, trenta giorni. E la risposta, conclude il regista, non deve essere militare, ma politica.
Finita la conferenza, inizia il tempo della riflessione. Un tempo tragico, condizionato nel suo farsi da una resa dei conti che prima o poi dovremo fare con le nostre coscienze. Di cinema non si è parlato per niente.
Ma stavolta forse, è stato meglio così.

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