"Qualcosa è cambiato" nel cinema americano: "L'ultimo sogno" di Irwin Winkler

La commedia si scioglie nel mélo e dramma lacrime e risate si mescolano in dialoghi stravaganti, personaggi miseri (per necessità di sopravvivenza) che sanno però riscattarsi, soprattutto quando il dolore di uno diviene “il dolore di tutti"

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L'ultimo sognoOk è vero, a prima vista sembra proprio di trovarci di fronte alla versione “American Beauty” post 11 settembre… Dove nel film di Mendes la disgregazione dei valori fondanti la comunità (la famiglia, il lavoro, ecc…) era metafora di sgretolamento complessivo dell’uomo, di suo bisogno necessità di ricostruirsi da capo a partire da bisogni primordiali comunque insoddisfatti, e il tutto non poteva che concludersi con la “morte dell’uomo” come constatazione di un’impermeabilità sociale alle più urgenti istanze individuali, ne “L’ultimo sogno” la morte arriva – come idea, concetto, “limite”, segno – quasi subito, a infierire sulla vita malandata e spezzata del protagonista. Perché George Monroe (Kevin Kline) ha visto il suo sogno spezzarsi già dieci anni prima, quando il suo matrimonio è naufragato, e quando oggi il suo giovane figlio lo disprezza e vive in una sorta di autodistruzione imposta, quando la casa che doveva costruire per la sua vita (e famiglia) è rimasta nel cassetto, persa dietro il lavoro che è sempre la priorità principale (almeno fino al momento di perderlo perché non più al passo con le logiche produttive della modernità).
Ma qui, al contrario di “American Beauty”, non ci sono personaggi da salvare, da prelevare dal mucchio come possibili anime pure in cui ricercare quel briciolo di umanità dispersa. Qui tutti sono “brutti sporchi e cattivi”, non c’è davvero un solo personaggio che non abbia le sue pecche, le sue meschinità, i suoi scheletri nell’armadio (se si esclude forse la ragazzina figlia della vicina di casa, Alyssa, interpretata da quella Jena Malone che sembra essere come un segnale di riconoscimento, cartina al tornasole di film che proprio non si possono perdere… vedi “Contact” e “Gioco d’amore”).
Il segno del cambiamento è in questa lenta, contraddittoria, ricerca di una ricostruzione. Ricostruzione di se, di senso, del proprio luogo, che nella metafora fin troppo esplicita della “casa sulla scogliera” trova la sua concreta e visibile applicazione.
E allora ci può forse anche dar fastidio vedere questi uomini e donne, tutti meschini, falsi, peccatori e fondamentalmente esseri soli e incapaci di comunicazione vera, riacquisire la loro umanità perduta uno ad uno nel gioco folle che George realizza nella ricostruzione della casa. Sì, possiamo immaginare che l’America del dopo 11 settembre abbia deciso di mettersi alle spalle i vecchi dolori per unirsi in una ricostruzione, innanzitutto, morale. Ma faremmo un torto non tanto al regista Irwin Winkler, che ci pare un abile esecutore di cose altrui (ma va detto che lo fa con una leggerezza di tocco invidiabile), quanto di quel Markus Andrus che già con lo script di “Qualcosa è cambiato” ci aveva indicato delle possibili strade nuove, dove la commedia si scioglie nel mélo, e dove dramma lacrime e risate si mescolano in dialoghi stravaganti, personaggi miseri (per necessità di sopravvivenza) che sanno però riscattarsi, soprattutto quando il dolore di uno diviene “il dolore di tutti”.
Ma “L’ultimo sogno” ha qualcosa di particolare, che ci tiene stretti in poltrona nonostante possano irritarci alcuni luoghi comuni dell’immaginario americano. Sarà la capacità di non fossilizzarsi sul personaggio morente di George, quella di caricare di senso ogni personaggio minore del film, oppure per il semplice e malandrino gioco padre/figlio che non vedevamo così eroicamente esposto da anni. Alla fine il ritratto che ne viene fuori, al di là delle coperture d’immaginario fornite dagli ambienti “doc” del mélo hollywoodiano (il mare, la famiglia, il cancro, il tradimento, ecc…) è quello di un’umanità che un po’ alla volta, grazie alla morte/rinascita di George, riacquista consapevolezza della propria unicità, della assurdità della vita che conduce, della follia di una vita dove il lavoro, la conquista di beni, di posizioni, di “esposizioni” sociali hanno completamente soppiantato ogni forma vera di comunicazione e/o solidarietà umana. Per questo padre e figlio si ritrovano, paradossalmente, nel “godere” (in forme diverse ovviamente) delle stesse medicine: George per alleviare il dolore del cancro che lo sta invadendo, Sam per annientare con l’artificio ben altri tipi di dolore.
L’ultimo sogno”, traduzione italiana di “Life as a House”, permette a Kevin Kline di esternare una prestazione attoriale di quelle che “sanno di Oscar”, ma la forza del film è in questo continuo “sottrarre” centralità al personaggio come elemento “fisico” a vantaggio di una centralità metaforica, se vogliamo virtuale, ma soprattutto morale di George Monroe. George non è un eroe, né il suo sogno privo di ambiguità o facili egoismi. Quel che conta non è il suo “ricostruirsi”, il riprendere ciò che la vita ti ha fatto abbandonare, quanto ciò che il suo gesto un po’ alla volta genera negli altri che lo circondano, penetrando le loro armature, facendogli riacquistare una vista, un sapore e un dolore vero. E alla fine “la casa è sempre il luogo da dove si inizia”.

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L’ULTIMO SOGNO
di Irwin Winkler
con Kevin Kline, Kristin Scott Thomas, Hayden Christensen, Jamey Sheridan, Jena Malone

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