Se chiudo gli occhi non sono più qui, di Vittorio Moroni

Se chiudo gli occhi non sono più qui
Il racconto di formazione perde gradualmente le erranze fisiche fatte di botte, lavori in cantiere e amori liceali non corrisposti per diventare viaggio passivo di una mente in cerca di radici. Moroni non concede un punto di approdo certo al suo giovane protagonista e così facendo immortala il suo progetto nel movimento interiore di un percorso liquido, rarefatto, teso alla ricerca di un sibilo, di un ricordo, di un suono, o molto più semplicemente di un punto di contatto contatto da cui ripartire

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Se chiudo gli occhi non sono più quiAncora un film sulla famiglia, sul vuoto, sull'assenza della figura paterna, con Ignazio Oliva che torna a essere il fantasma di un cinema continuamente fedele a se stesso. Magari fuori dal giro che conta, ma fieramente indipendente e personale. Vittorio Moroni del resto è un regista che meriterebbe una maggiore attenzione dagli addetti ai lavori e che dai tempi della sua opera prima Tu devi essere il lupo sa raccontare l'adolescenza e la paternità come pochi altri in Italia. Se chiudo gli occhi non sono più qui conferma la sua fedeltà a certi temi ricorrenti e a uno stile che mescola sapientemente la fiction d'autore con la sensibilità documentaristica. Il film lavora nel piccolo della dimensione soggettiva e fragile di un ragazzo italiano di origini filippine a cavallo di due mondi: da una parte l'Italia operaia, faticosa e dura di Ennio, il compagno della madre interpretato da un Beppe Fiorello ruvido, perfettamente in parte e dall'altra l'immagine mentale, colta, di un padre scomparso (Oliva appunto) adorato e improvvisamente sostituito da un uomo anziano e malato, di nome Ettore (Giorgio Colangeli) che del padre racconta di essere stato un caro amico. L'incontro con quest'ultimo potrebbe infatti essere un punto di svolta per Kiko che trascorre le sue giornate trascurando lo studio e lavorando nell'impresa edile del patrigno.

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La macchina da presa di Moroni segue con empatia gli spostamenti nervosi del giovane Kiko, a cui Mark Manaloto riesce a dare una forza dolente penetrante e contagiosa, ma allo stesso tempo affonda le immagini in sfumature oniriche e ossessive. Il racconto di formazione perde gradualmente le erranze fisiche fatte di botte, lavori in cantiere e amori liceali non corrisposti per diventare viaggio passivo di una mente in cerca di radici (certamente il padre, l'istruzione, il legame biologico con un paese lontano). Ne viene fuori un film preziosamente incompiuto, fatto di continui passaggi e attraversamenti tra ricordi e proiezioni, tra i libri e il calcestruzzo. Moroni non concede un punto di approdo certo al suo giovane protagonista e così facendo immortala il suo progetto (durato quasi cinque anni) nel movimento interiore di un percorso liquido, rarefatto, teso alla ricerca di un sibilo, di un ricordo, di un suono, o molto più semplicemente di un punto di contatto da cui ripartire.

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