A Good American, di Friedrich Moser

La storia di Bill Binney e del suo ThinThread in un documentario che è un “atto di fede” prima ancora che un’accurata indagine storica. Moser invita lo spettatore a scegliere tra bene e male

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Un aereo in volo e la voce di una donna che parla al telefono e lascia un messaggio concitato e terribile ai propri cari. Data: 11 settembre 2001. Si apre così A Good American, documentario del quarantasettenne regista austriaco Friedrich Moser (QUI l’intervista realizzata da Sentieri Selvaggi), presentato in anteprima internazionale al Copenhagen Film Festival nella sezione documentari solo tre giorni prima degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Subito dopo, una camera avanza sussultando in un corridoio piuttosto buio, in una dinamica che rappresenta il trait d’union, emotivo e narrativo, con lo spettatore, il diaframma attraverso il quale verrà guidato il nostro punto di vista nella (e della) storia. Ad avanzare nel corridoio è un uomo su una sedia a rotelle, sulla settantina, espressione mite eppure risoluta, un volto che ci appare immediatamente familiare e “comune” e che potrebbe tranquillamente essere quello di un vicino di casa o di un impiegato dell’ufficio postale, un “volto qualunque”. Nel raccontare la sua storia, si sofferma su un’osservazione: “Il comportamento umano è estremamente schematizzato. Bisogna solo individuare i modelli e interpretarli correttamente”. Parola di William Edward “Bill” Binney, direttore tecnico della National Security Agency per trent’anni, dal 1970 al 31 ottobre 2001. Ecco chi è quell’uomo.

Da code-breaker a whistleblower

a-good-american2Sfruttando la sua straordinaria attitudine per la matematica e la logica (si è laureato in scienze matematiche nel 1970 presso la Pennsylvania State University), tra il 1965 e il 1969 presta servizio presso l’Army Security Agency. In Turchia, durante la Guerra Fredda, mentre studiava le mosse dell’Armata Sovietica, analizzando i metadati riesce a prevedere l’invasione russa della Cecoslovacchia e dell’Afghanistan. È questo il compito di un traffic analyst: decodificare la struttura che si cela dietro una montagna di dati, studiandone le relazioni. Entrato nella National Security Agency nel 1970, con il supporto di un piccolo team, composto da Kirk Wiebe (traffic analyst della NSA), Ed Loomis (direttore tecnico del SigInt Automation Research Center), Thomas A. Drake (membro esecutivo della NSA, le cui soffiate al Baltimore Sun, a proposito di informazioni segrete sui due software rivali, hanno portato ad un grave capo di accusa di fuga di notizie, con successivo patteggiamento e demansionamento ad una carica minore), Diane Roark (membro dell’House Permanent Select Committee on Intelligence) – i soli altri personaggi ad interloquire nel documentario, oltre ad una breve dichiarazione di Jesselyn Radack (membro della National Security & Human Rights) – Binney rivoluziona il sistema di raccolta ed archiviazione dei dati e modernizza gli strumenti investigativi della NSA, aprendola alle sconfinate possibilità del mondo digitale, sempre più terreno ideale per le nuove frontiere del terrorismo internazionale. Nasce così ThinThread, un sofisticato software di sorveglianza in grado di raccogliere, incrociare e decodificare miliardi di dati tracciando collegamenti telefonici e interazioni digitali su tutto il pianeta, fondato su cinque indicatori di pericolo e tre criteri fondamentali: volume, velocità, varietà. “Tra il 1996 e il 1998 eravamo riusciti perfino ad individuare il numero satellitare di Bin Laden”, spiega Binney. Eppure, soltanto tre settimane prima dell’attacco dell’11 settembre 2001, il generale Michael V. Hayden, nuovo direttore dell’agenzia di sicurezza americana, decide di boicottare un programma efficiente come ThinThread e di sostituirlo con un altro sistema di sorveglianza, Trailblazer Project, pagato miliardi di dollari ad un’azienda privata (gestita da Sam Visner, già in affari con Hayden) e che fallirà miseramente nel prevenire l’attacco alle Torri Gemelle. Altra questione basilare: la tutela della privacy. Mentre, infatti, Binney aveva dotato la sua “creatura” di una serie di filtri a protezione e garanzia della privacy e dell’anonimato degli utenti della rete onde risultare “compatibile” con i principi democratici, Trailblazer non prevedeva nessuna restrizione di campo, aprendo la strada alla sorveglianza di massa. “La prima cosa che pensai il giorno della tragedia fu che come intelligence avevamo fallito”, racconta Binney. “Alla NSA, invece, dicevano che l’11 settembre era una manna dal cielo, finalmente il Congresso avrebbe sganciato una marea di dollari”. In effetti così fu. Nei giorni successivi, l’Agenzia di Sicurezza fu sommersa di nuove attrezzature e – ciò che sa ancora più di beffa – fu riattivato anche ThinThread (senza filtri) per vedere quali informazioni rilevanti erano sfuggite. “Saremmo riusciti a prevedere tutto”, sostiene Diane Roark. Ma gli errori, soprattutto a certi livelli, vanno taciuti. Anzi, insabbiati, mentre l’America in preda alla paranoia rivolge il proprio sistema di spionaggio contro i suoi stessi cittadini, indistintamente. Binney si rifiuta di prendere parte ad una forma di sicurezza nazionale, a suo dire, perversa e lascia la NSA, vivendo la situazione come un tradimento dei valori in cui ha sempre creduto. Soprattutto, Binney diventa un whistleblower, una “gola profonda”.

Tra spy documentary e propaganda moralizzatrice

609283406A Good American sbarca nelle sale cinematografiche con (colpevole?) ritardo rispetto ai fatti narrati (e con due anni di ritardo nelle sale italiane), eppure in un momento quanto mai propizio: il recente insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, in una contingenza storica in cui la questione della sicurezza nazionale – e degli strumenti attraverso cui un governo la persegue – si pone con urgenza inderogabile e sembra essere traslata in misura sempre crescente nella sfera di competenza del potere esecutivo. Il documentario mescola filmati di repertorio, interviste frontali, spezzoni narrativi e cupi effetti sonori creati da Guy Farley e Christopher Slaski – dai corni agli archi – che rievocano atmosfere à la Gary Numan o Philip Glass. A parte qualche scorcio bucolico e luminoso che inquadra alcuni degli intervistati alle prese con la vita quotidiana, la fotografia vira su tonalità scure, veicolando simbolicamente il carattere ambiguo degli scenari di cui si parla, ed affascina il sottile gioco di ombre e di luci che agisce sui volti dei protagonisti, a significare il senso di sgomento e di smarrimento “ideale” che li ha assaliti a seguito delle decisioni della NSA. Moser non lesina di mostrare il suo debito formativo nei confronti degli spy movie degli anni Sessanta e Settanta, dei romanzi di John Le Carré, di Alan J. Pakula, delle saghe di James Bond, Ethan Hunt e Jason Bourne (e Operazione Treadstone suona quasi come un omaggio al nome del software), come pure dei documentari geopolitici à la Errol Morris (vincitore del Premio Oscar 2004 con il documentario The Fog of War: La Guerra secondo Robert McNamara), senza tuttavia coniugare il racconto con la scientificità metodica del recente Zero Days di Alex Gibney (2016) o la veemente “poetica militante” di un Michael Moore. Certe scene sembrano evocare House of Cards, con ampie vedute “a volo di elicottero” di Washington e del Pentagono; altre – quelle che ripercorrono la giovinezza e la prima maturità di Binney – sembrano accrescere il senso di paranoia ed inquietudine attraverso la scelta di un attore, Christopher Beer, dalla notevole somiglianza con Edward Snowden. Proprio Snowden aveva espresso grande apprezzamento per The Program, un profilo filmato di Bill Binney, della durata di otto minuti, che la regista statunitense Laura Poitras ha girato per il sito web del New York Times il 23 agosto 2012. E tutto torna: la Poitras porta entrambi sul set con Citizenfour (Oscar per il miglior documentario nel 2015) e Oliver Stone – qui nelle vesti di executive producer – dirige nel 2016 il bio-pic in salsa thriller Snowden. Tuttavia, non può essere trascurato il fatto che il declino all’invito a prendere parte al film e a testimoniare ed argomentare la propria posizione da parte di Hayden e Visner, in primo luogo (della serie: il potere si esercita, non si mostra?), impoverisca l’indagine storica e il fulcro drammatico della ricognizione condotta da Moser. Inevitabilmente, questa finisce per trasformarsi in una campagna propagandistica a favore delle tesi sostenute da Binney e dal suo team senza sottoporle al vaglio critico di un contraddittorio. Quello di Moser è un “atto di fede” che sceglie da subito da che parte stare: piuttosto che proporre interrogativi ed instillare dubbi nello spettatore, li invita a sposare la sua causa e ad attivarsi per difendere il concetto di democrazia, il suo, quello di Bill, in fondo quello che ci piacerebbe che fosse. In sostanza, un documentario sui principi informatori dell’etica occidentale che, fin dal titolo, opera la più classica delle distinzioni: quella tra buoni e cattivi.

Titolo originale: id.

Regia: Friedrich Moser

Origine: Austria, 2015

Distribuzione: Arch Film

Durata: 100′

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