I Cantastorie, di Gian Paolo Cugno

Sebbene l’impostazione possa ricordare un tentativo di ripresa di un passato cinematografico ormai fisso nella memoria, Cugno affronta un film che nel complesso emoziona nel ritorno alla semplicità

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David Coco è Angelo, un uomo che, come tanti, cade vittima della crisi economica: perso il lavoro e la stabilità coniugale si ritroverà a fuggire per scorgere una nuova opportunità e un respiro dalla sua tragica condizione. Chiuso ormai il rapporto con la moglie Anna (Tiziana Lodato), Angelo lascia la caotica Roma per rifugiarsi nella sua terra madre, la Sicilia, accompagnato dalla figlia Maria Teresa (M. T. Esposito) e dal desiderio di una rinascita reale che lo porterà a seguire le orme dei suoi avi, cantastorie da due generazioni. Il protagonista si immergerà in questa nuova impresa riscoprendo i valori e l’autenticità di un’esistenza fino a poco prima relegata ad un mero meccanismo economico, che faceva dei soldi l’unico obiettivo da raggiungere.

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Diretto e scritto da Gian Paolo Cugno, autore di Salvatore – Questa è la vita (presentato al Festival del Cinema di Roma nella sezione “Alice nella città” nel 2006 e vincitore del Globo d’oro come regista rivelazione) e La bella società (2010), I Cantastorie si presenta come un film dai vaghi toni neorealistici, in riferimento alle vicende narrate come nella scelta autoriale di inserire nel cast attori non professionisti del luogo. Sebbene l’impostazione possa ricordare un tentativo di ripresa di un passato cinematografico ormai fisso nella memoria, Cugno riesce a discernere quest’ipotesi affrontando un film che nel suo complesso emoziona e colpisce.

Le pecche del film, seppure evidenti in una sceneggiatura che non approfondisce diversi aspetti malamente accennati, si concentrano in primo luogo su un commento sonoro che spesso risulta sovraccarico recando un proficuo danno alle scene di maggior pathos.
Malgrado le evidenti imperfezioni, la pellicola scorre e coinvolge lo spettatore, trovando nella storia una forte verosimiglianza che non accenna a decadere per l’intera durata del film.
Un racconto visivo che ci parla fin dagli sfondi che raccolgono i suoi protagonisti: se nella Roma simbolo della perdita di ogni stabilità per Angelo, è il cemento a schernire e avviluppare le angosce degli interpreti, in Sicilia la fabula scenografica troverà il suo esatto opposto. Dimenticate le grandi strutture grigie della città, Angelo e la figlia Maria Teresa si troveranno attorniati da maestose costruzioni di pregio artistico e scenari naturali che richiameranno la ritrovata libertà. Il tutto valorizzato da una buona fotografia curata da Giancarlo Ferrando.
Un percorso nelle culture di un tempo che trovava nella semplicità e nell’immaginazione la vera fonte vitale, lontane dalle eccessive elucubrazioni che disorientano la modernità.

 

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