SAN SEBASTIAN 56 – "Frozen River", di Courtney Hunt (Concorso)
In una ruvidezza spoglia e secca, attraverso un’America sporca e livida, Courtney Hunt insegue la corsa affannata di Ray, l’ottima Melissa Leo, che traghetta clandestini per pagarsi quel sogno strappato via, non solo a lei ma anche ai suoi due figli, dal marito fuggito con tutti i risparmi della famiglia. Opera prima già vincitrice del premio della giuria al Sundance Film Festival
E’ un paesaggio di frontiera quello che Courtney Hunt ritrae nel suo primo lungometraggio, Frozen River, vincitore del premio della giuria al Sundance Film Festival, è una terra di nessuno, nascosta e dimenticata, il territorio Mohawk al limite tra l’America e il Canada, una distesa di ghiaccio arida e incolore, lasciata morire nella sua dolorosa marginalità. Una donna bianca, Ray (la bravissima Melissa Leo che riesce ad imprimere sul suo corpo la stanchezza e il disordine che soffoca l’esistenza della protagonista del film), attraversa quest’America livida e sporca, bagnata da una luminosità spettrale e tagliente, destinata a rimanere imprigionata nella sua esclusione, e continua a percorrere il territorio Mohawk, traghettando dal Canada agli Stati Uniti clandestini cinesi e pakistani per riuscire a pagarsi quel sogno strappato via, non solo a lei ma anche ai suoi due figli, dal marito con il vizio del gioco scomparso con i risparmi della famiglia destinati all’acquisto di una casa prefabbricata, grazie alla quale tentare, pur senza riuscire più a crederci, di fuggire dallo squallore che ha piagato il corpo e l’esistenza di Ray. Nella sua ruvidezza spoglia e secca, e in un’immediatezza che riesce a dare consistenza fisica alle frustrazioni e alla miseria, mentre tutto il dolore, impossibile da esprimere, la fragilità e le paure soffocate che scuotono l’animo di Ray invadono lo schermo attraverso la lacrima che scorre sul suo volto, Frozen River insegue la corsa affannata di questa donna coraggiosa e disperata che, insieme a Lila (Misty Upham), la ragazza Mohawk chiusa un incredulo smarrimento alla quale è stato sottratto il figlio e con la quale Ray fa entrare in America i clandestini, continua a muoversi attraverso la distesa di ghiaccio che la circonda, spinta da un’urgenza che non le lascia la possibilità di confrontarsi con le implicazioni morali o di volgere il suo sguardo verso le possibili conseguenze dei suoi gesti. Con pochi e decisi tratti, in una potente e dimessa essenzialità, senza mai cercare un falso rifugio nella commiserazione, ma semplicemente lasciando pulsare il battito vitale che anima Ray, Courtney Hunt riesce a dare un’incredibile compattezza al suo film, lasciando vivere in tutta la sua contraddittoria complessità l’universo interiore di Ray e la disperazione di Lila e guarda crescere la tacita intesa che, senza bisogno di parole, scorre tra queste due donne – entrambe madri che lottano per riuscire a dar l’illusione di un futuro ai loro figli – dure e distanti, chiuse nelle loro paure e nel tentativo di respingere ogni contatto, ogni calore, eppure così intimamente connesse nella condivisione della stessa emarginazione, dello stesso abbandono nel quale sono costrette a trascinarsi.