Un atto di invenzione collettiva. La nostra intervista a Jonathan Demme

La nostra chiacchierata con il cineasta scomparso ieri, un lungo confronto in occasione del Napoli Film Festival 2010. Il senso dell’indipendenza, politica dell’intimità, il cinema come jam infinita

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Quella che segue è la trascrizione (ad opera di Martina Ponziani), mai tentata prima d’ora probabilmente per paura di toccare la purezza del ricordo, di uno degli istanti fondativi della generazione “corrente” di Sentieri Selvaggi. Quel 10 giugno 2010 a Napoli da Jonathan Demme ci presentammo in 5-6, compatti, una rappresentanza nutrita della redazione ad affollare una minipress che ben presto monopolizzammo del tutto, come raccontano i video che abbiamo girato in quell’occasione. I giornali locali nei resoconti del giorno dopo scrissero della presenza di “un gruppo di appassionati del regista”. Demme aveva sul volto quel suo abituale, dolcissimo sorriso che in tanti stanno ricordando in queste ore, e seguiva il rimpallo tra le nostre confuse esternazioni ammiccandoci e ridendo di gusto.
Dopo l’incontro aperto ci sedemmo per chiacchierare più intimamente con lui fino a quando, dopo numerosi tentativi a vuoto, l’ufficio stampa Lorena Borghi non riuscì a far alzare Demme dal divano intorno a cui l’avevamo accerchiato, per fargli proseguire i suoi appuntamenti della giornata. Durante tutta la discussione, il cineasta non faceva che ripetere con le mani giunte quanto fosse grato con noi perché avevamo visto tutti i suoi film: ancora oggi, tra i selvaggi “di terza generazione” viene ricordata come l’intervista forse più emozionante di tutto il percorso fatto insieme, spesso citata e tirata in ballo quando c’è da parlare degli incontri più importanti che ci siano mai capitati.
E a rileggere le parole di Demme di quella giornata, colpisce davvero la lucidità estrema di uno sguardo libero e in grado come pochi di leggere le suggestioni del presente per saperle trasformare all’istante in materia dell’immaginario, dell’esperienza creativa, dell’intuizione artistica. “Siamo in un momento di transizione enorme e sta cambiando radicalmente non solo il modo di fare cinema ma anche la maniera di fruirlo”, fu l’ultima cosa che ci disse. “Puoi vedere i film sui cellulari o su internet e teoricamente queste possibilità si possono espandere all’infinito, creando tutta una serie di nuove opportunità, di nuove finestre. La speranza è che queste possibilità non facciano che aumentare ed estendersi in maniera globale a tutto il mondo”.

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Guardando i tuoi lavori più apertamente legati al tuo attivismo, come Man from Plains, ci si accorge di come tu riesca a veicolare l’aspetto politico attraverso l’intimità del racconto, portare un messaggio di importanza universale con toni assolutamente personali, quotidiani…

L’aspetto umano della storia deve sempre prevalere, solo tenendolo proporzionato puoi essere in grado di raggiungere proprio quella parte di pubblico che non la pensa come te, e che vorresti indurre a riflettere e cambiare idea su determinate situazioni. Se il film è troppo dichiaratamente “di parte” è una fetta di audience che rischi al contrario di alienarti. Ciclicamente il cinema hollywoodiano ci propone periodi di produzioni senza alcuna apparente tensione politica o sociale, ma la cosa non mi preoccupa, perché il potere resta sempre in mano a noi spettatori: possiamo sempre rifiutare che ci vengano imposte queste narrazioni e chiedere con forza l’alternativa indipendente. Vi racconto un aneddoto al riguardo. Risale a quando avevo vent’anni, all’epoca della guerra in Vietnam, e come tutti gli americani della mia generazione avevo subito il lavaggio del cervello ed ero portato a credere che ogni volta che gli Stati Uniti scendevano in guerra in un Paese straniero, fosse per buoni scopi. La protesta era ovviamente già in corso ma io non prestavo attenzione a quello che avveniva finché non ho visto Far From Vietnam, un film collettivo realizzato da tanti cineasti, ed in particolare il frammento di Alain Resnais dove si vede un uomo che passeggia nella sua biblioteca e dice: “Io volevo bene ai soldati americani, li ammiravo, sono loro che hanno liberato Parigi dai nazisti ma ora di fatto in Vietnam i nazisti sono loro perché stanno occupando un Paese con la forza”. Questi 12 minuti mi hanno fatto totalmente aprire gli occhi e da lì in avanti mi sono unito a tante manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Questa è la dimostrazione di quanto una persona possa essere influenzata da un solo film, anzi da un cortometraggio. Quindi è vero che si può fare la differenza con un solo film, ma è anche vero che c’è bisogno che sia tutto molto equilibrato e ci sia un livello più intimo affinché il linguaggio possa passare.

E’ un equilibrio che ritroviamo anche nei tuoi film-concerto. La macchina da presa sembra sempre un elemento della band che dialoga con gli strumenti, con i musicisti e con il frontman. Come si arriva ad ottenere questo effetto?

Sempre più nel corso degli anni tendo a lavorare con operatori di macchina che sono anche musicisti. Sanno quindi anticipare i movimenti e il tipo di stacchi e di riprese da fare: intuiscono quando stringere un primo piano su uno strumento solista oppure quando allargare l’inquadratura per comprendere anche gli altri componenti della band. Ogni volta dico ai miei collaboratori di fare un’inquadratura che sia talmente bella che mi diventa impossibile utilizzare le angolazioni delle altre macchina da presa. Proprio perché non mi piace lavorare sul montaggio quando realizzo un film-concerto, credo che spezzi il fluire della musica e rende artificioso il film, cosa che non mi piace.

Ci sembra la maniera di procedere anche dei tuoi film di finzione. C’è sempre un’idea di jam session. Penso al passato a film come a Married to the Mob o a The Truth About Charlie e soprattutto poi in Rachel getting married. La sensazione di un cinema aperto in cui si lavora sia con il comparto tecnico che con gli attori come in un happening infinito, quei titoli di coda di Rachel in cui sembra che i musicisti non smetteranno mai di suonare, e le immagini vogliano rimanere aggrappate ad oltranza alla musica. Il fatto che ci sia Rogert Corman tra gli invitati con la videocamera in mano alla cerimonia di Rachel, è in qualche modo una maniera per dire che parte da lui questa idea di cinema espanso, condiviso?

Nel mio lungo viaggio come cineasta, che è iniziato appunto nella scuderia di Rogert Corman e che dura tuttora, due sono i misteri principali. Uno è che ho imparato a fare il regista senza sapere davvero come ho fatto a impararlo, il secondo è che ho iniziato a lavorare con Rogert Corman quando avevo ventisette anni ed ancora oggi non capisco come ho fatto ad avere questa opportunità! Allora pensavo che il regista dovesse dare indicazioni su tutto, sia ai tecnici che agli attori: che cosa dovessero fare, quali fossero i ruoli di tutti. Nel corso degli anni ho cominciato a capire invece che il lavoro del regista è di fatto quello di fare un passo indietro e lasciare agli interpreti, quelli di grande livello come ho poi imparato lavorandoci insieme, di potersi esprimere naturalmente senza imporre la mia idea su come devono affrontare il loro ruolo. Quindi oggi mi vedo come qualcuno che riceve l’interpretazione dell’attore, come qualcuno che cerca di incoraggiarli a fare del loro meglio. Per quanto riguarda Rachel Getting Married, è stato un atto di invenzione collettiva perché quello che ho fatto io in questo film è stato raggruppare tantissime persone e spingerle a lasciarsi andare e ad esprimersi liberamente.

Qualcosa di Travolgente o The Truth about Charlie sono film che contaminano i generi. Oggi c’è ancora spazio nell’industria per fare un cinema come il tuo?

Sicuramente in America in questo momento assistiamo a due fenomeni. Da un lato è sempre più difficile realizzare film idiosincratici come quelli, ovvero che presentino storie diverse e soprattutto che mescolino i generi. E’ difficile realizzarli nello schema produttivo delle major, situazioni in cui ci sono grandi finanziamenti e si desidera realizzare un film di produzione imponente che riscuota molto successo al botteghino. Però la tecnologia digitale con una forma di qualità sempre più elevata e meno costosa rende possibile a molti cineasti o aspiranti tali realizzare proprio questi film personali, l’importante è a quel punto trovare la propria collocazione. La cosa migliore è cercare di essere presentati in un festival, e se poi si viene ben accolti c’è la possibilità di farsi conoscere anche da un pubblico più vasto. Quindi se si vuole realizzare un film come Qualcosa di Travolgente ed entrare negli schemi produttivi mainstream c’è la possibilità di farlo anche con una soluzione più indipendente. Riguardo a The Truth About Charlie, è stato il mio tentativo di provare a condividere il mio amore per la Nouvelle Vague e comunicarlo al pubblico sperando che potesse ricavarne tanto piacere quanto ne ho ricavato io quando ho iniziato a innamorarmi di quella stagione: prima di essere un regista, io sono un grande cinefilo!

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