When they see us, di Ava DuVernay

Su Netflix, la storia di quattro afroamericani e un ispanico, tutti tra i quattordici e i sedici anni, condannati ingiustamente per lo stupro e il tentato omicidio della jogger di Central Park

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La violenza che sottende la programmaticità di un discorso mediatico che fa della parola l’arma discriminatoria da puntare contro le comunità degli afroamericani e dei latinos è al centro del lavoro della Alexandra Bell. La Bell è un’artista multidisciplinare che ha raccontato, nell’installazione “No Humans Involved: After Sylvia Wynter”, le distorsioni razziste della copertura giornalistica a firma del Daily News del celebre caso dei Central Park Five, una delle vicende più torbide nel lungo elenco delle ingiustizie partorite dall’apparato investigativo e giudiziario statunitense. Ed è proprio a partire dalla consapevolezza che, nella storia a stelle e strisce dei pregiudizi razziali, le etichette e le parole pesano come macigni, perché hanno il potere non solo di scrivere un verdetto di condanna, ma anche di spogliare l’individuo di ogni parvenza di umanità, che Ava DuVernay ritorna a raccontare, nelle quattro puntate della sua miniserie targata Netflix la storia di cinque ragazzi, quattro afroamericani e un ispanico, tutti tra i quattordici e i sedici anni, accusati e condannati ingiustamente, con pene tra cinque e quindici anni, per lo stupro, l’aggressione e il tentato omicidio della jogger di Central Park, Trisha Meili, bianca.

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WHEN THEY SEE USIn un momento in cui la new wave del cinema black, Jordan Peele in testa, ha imbracciato, con una nuova consapevolezza narrativa e stilistica, tutta l’urgenza di dover operare un ribaltamento prospettico, Ava DuVernay traccia una linea narrativa ed estetica che riparte dalla volontà di riappropriazione del nome proprio, in un racconto profondamente stratificato e dal ritmo volutamente disteso, animato da un piglio storico che non si accontenta della scorciatoia dello sdegno, ma che vuole mettere a nudo le motivazioni più controverse di un’intera nazione e ragionare sulle loro implicazioni. When they see us mostra la necessità di svuotare di senso quel linguaggio armato, con la sua retorica animalista piena di frasi come “Wolf Pack” (una retorica cavalcata in grande pompa da un Donald Trump, all’epoca ancora solo speculatore finanziario, nei primi passi di una carriera politica fondata sull’odio e sulla paura), che fa della criminalità una tara ereditaria, legata alla razza, e che gioca sul ricatto spersonalizzante delle generalizzazioni.

Antron McCray, Yusef Salaam, Korey Wise, Raymond Santana e Kevin Richardson raccontano, ognuno a modo proprio, la storia di una lotta intrapresa per non naufragare nella densità insidiosa di quelle ombre, proiettate dalla magnifica fotografia di Bradford Young, lo stesso di Arrival, che cercano di erodere i loro connotati. Quel che interessa alla DuVernay, non è tanto il taglio investigativo o il dramma processuale. Piuttosto si tratta, dalle prime immagini, poco prima di quel maledetto detour casuale al parco, fino all’intera durata del terzo e dell’ultimo episodio, quasi tutto incentrato sulla storia di Korey Wise, sedicenne al momento dell’arresto e quindi condannato alla pena più severa da scontare nel carcere duro degli adulti, di svelare il volto e lo spessore umano di ogni protagonista, in modo da far implodere quella logica manipolatoria che vuole trasformare i protagonisti di When they see us, e con essi un’intera comunità, in un gruppo selvaggio e sacrificabile, perché senza valore.

when they see usCome Barry Jenkins, pur senza eguagliare la poeticità delle sue immagini, Ava DuVernay si muove con eleganza autoriale in quello che diventa un ulteriore tassello di un chiaro percorso artistico di impegno civile. A partire dalla necessità di riconoscere il valore della propria storia di emancipazione in Selma, passando per le accuse contro un sistema che continua a perpetrare la schiavitù del notevole 13th e per la riflessione sulla blackness nel disneyano Le pieghe del tempo, fino al complesso affresco di uno dei fatti di cronaca che ha segnato la Grande Mela, Ava DuVernay crede nell’urgenza di un cinema militante, capace non solo di farsi strumento di denuncia delle storture di un’America che sta ancora facendo i conti con il proprio retaggio razzista, la bilancia falsata della giustizia in When they see us parla chiaro a proposito, ma anche di esplorare le varie sfumature racchiuse nella domanda “what is black?”.

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