#RomaFF14 – Fête de famille, di Cédric Kahn

Kahn è ancora alle prese con l’economie (della coppia, della famiglia), e questo ritratto borghese di giornata in campagna e regolamento di conti tra figli e fratelli si apre a giochi metanarrativi

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Cédric Kahn scrive con Fête de famille un piccolo manuale su come lavorare su di un canovaccio decisamente abusato, come il raduno familiare in villa di campagna destinato a trasformarsi ben presto in una resa dei conti di tutto il livore sopito tra figli e fratelli, e rinnovarne le modalità di racconto attraverso un paio di rotture formali inedite, tra cui il principe degli oggetti-intruso gettato dentro una rappresentazione filmica: la macchina da presa in scena. Il fratello artistoide e mattacchione, interpretato dal sempre irresistibile Vincent Macaigne, ha in mente tutto un progetto di documentazione e intervento sulla giornata in famiglia, che prevede la ripresa dei pranzi e delle cene con la sua reflex, e la complicità in quanto imprevedibile e devastante elemento di disturbo (scopriremo poi, senza svelarvi troppo) della sorella nevrotica Emmanuelle Bercot (forse una volta di troppo veicolo della rappresentazione dell’isteria femminile…).
“E’ un lavoro sull’archivio”, si giustifica Macaigne al fratello interpretato dallo stesso regista Cédric Kahn, che obietta: “l’archivio riguarda le immagini del passato, e non parla!” Il gioco è raddoppiato dal fatto che questi attori sono tutti anche autori di film, si tratti di Kahn nel doppio ruolo, o appunto di Macaigne e Bercot, e dunque la reiterata ritrosia di Cédric per farsi riprendere dalla videocamera del fratello, che lo porterà nel climax drammatico e violentissimo dell’opera a prenderla a calci nel tentativo di distruggerla, assume una chiave di lettura esplicitamente metaforica: “voglio riprendere la scena il più larga possibile, con tutti all’interno del quadro, come fosse Ozu”, spiega il personaggio di Macaigne, ed ecco che poi Kahn risolve intere sequenze di confronto, come quella dell’incidente stradale e quella subito successiva su chi pagherà i danni all’automobile, con inquadrature fisse e totali in cui l’affollato numero di personaggi ha modo di prendere il proprio posto nella rappresentazione.
D’altra parte, il film offre due messinscene-nella-messinscena, lo spettacolino preparato dai bambini per il compleanno della nonna Catherine Deneuve, e il dietro le quinte di questo abissale video-happening ripreso tra Macaigne e Bercot, che Kahn svela sui titoli di coda.

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Insomma l’esperimento è chiaramente ambizioso, e Kahn ha spesso il passo pesante che solitamente riconosciamo al suo cinema: il riferimento sembra un Desplechin di quelli più metanarrativi, ma la gittata non è propriamente alla stessa altezza – la volontà di lavorare per destrutturazioni e ammiccamenti linguistici lo tiene però quantomeno lontano dalla sensazione dell’ennesimo dramma borghese da grande cinema francese d’élite. Come se Kahn non riuscisse più a staccarsi dall’indagine sentimentale su quell’economie (della coppia, della famiglia) affrontata per Joachim Lafosse, e infatti anche qui tutto il rancore gira intorno ad eredità strappate al futuro dei figli e ora rivendicate, valutazioni del valore degli immobili, prestiti, patti, debiti e “constatazioni amichevoli” solo in apparenza.

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