Giù la testa, di Sergio Leone

Secondo film della cosiddetta trilogia del tempo, racconta un West che non esiste più, soppiantato dalla realtà della rivoluzione politica e dalla disillusione di un’umanità smarrita.

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“Rivoluzione? Per favore non parlarmi tu di rivoluzioni. Io so benissimo cosa sono e come cominciano. […] Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono “qui ci vuole un cambiamento!” e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo e parlano, parlano e mangiano, parlano e mangiano. E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione. E porca troia lo sai che succede dopo? Niente! Tutto torna come prima”.

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La feroce disillusione del peone messicano Juan Miranda, il silenzio di un attonito Sean (anzi John), il volume “The Patriotism” di Mikhael Bakunin gettato nel fango. Occorrono pochi fotogrammi, l’intensità di due sguardi e uno zoom per raccontare l’essenza di Giù la testa (1971), sesto lungometraggio di Sergio Leone e secondo tassello della cosiddetta trilogia del tempo.

Dopo il commosso saluto alla dimensione crepuscolare di C’era una volta il West e prima dell’epopea gangster di C’era una volta in America, Leone delinea un paesaggio di memorie e ceneri, il racconto quasi “miltoniano” di un selvaggio paradiso perduto. Il West, almeno in quella sua forma primigenia e leggendaria raccontata per decenni, non esiste più. Rimane l’illusione, il ricordo; permane nel terreno di sabbia e fango, nel rombo di fucili e pistole dei reduci di quell’Ovest, nei sogni di rapine milionarie (la banca di Mesa Verde) e in una diligenza trainata da cavalli, meraviglioso spaccato sociale e classista – descritto nei dettagli di occhi e bocche avidamente ingozzate – ed eco di un immaginario epocale (Ombre rosse di John Ford) divenuto simbolo del genere.

Ma dai vitrei oblò di questo passato su ruote irrompe – come le armi da fuoco della famiglia di Juan – “una realtà ben diversa”. Una realtà che è crocevia di rivoluzioni. La rivoluzione diegetica, quella del Messico del 1913, di Madero e Huerta, della guerriglia dei prodi Villa e Zapata contro la dittatura; la rivoluzione fuoricampo, irlandese, geograficamente distante, ma vivida nella mente e negli effetti personali di Sean (anzi John), nella bandiera dell’IRA, nella dinamite, in un articolo di giornale. La realtà della rivolta sessantottina, di quella lotta iniziata tre anni prima dell’uscita del film, al di là dello spazio-tempo della macchina da presa, inevitabilmente divenuta forgia della disillusione che permea l’opera. E, infine e soprattutto, la realtà della rivoluzione universale, intesa come stella polare dei popoli soppressi e indomabile afflato di libertà cui dare voce ad ogni costo.

È all’interno di questo meccanismo di scatole cinesi, temporale quanto tematico, che Leone ritaglia – rigorosamente in primo piano – lo spazio dell’incontro, dell’amicizia improbabile, conferendole volto e corpo dei due protagonisti. Da un lato il dinamitardo e rivoluzionario irlandese John, disperatamente in fuga dal suo alter ego Sean, di cui tuttavia conserva gli immortali ideali di rivalsa e l’amarezza di una colpa impronunciabile; dall’altro il bandito Juan, sempliciotto in apparenza, padre burbero e affettuoso – “il mio paese sono io e i miei figli” – e glorioso eroe della rivoluzione per sbaglio. Una dinamica alla buddy-movie con cui il regista gioca in un continuo (s)bilanciamento del tono, barcollando tra scanzonati diverbi linguistici – tra un “okey!” e un “fanculo!” – e appassionate digressioni politiche e sociali.

Il finale dolce amaro, accompagnato dalla malinconica melodia del fedele Morricone – quel “Sean Sean” che scava nel passato e nella coscienza – lega indissolubilmente amore e dolore, sacrificio e perdita. E prima e ultima inquadratura sembrano connettersi in un tutt’uno circolare, dove le formiche affogate nel piscio e nella sabbia dei primi istanti di pellicola si elevano a metafora di un’umanità smarrita e aggrappata al solo ideale. Un umanità a cui non resta che domandarsi: “e adesso io?”.

 

Regia: Sergio Leone
Interpreti: Rod Steiger, James Coburn, Romolo Valli, Maria Monti, Rik Battaglia, Franco Graziosi
Durata: 157′
Origine: Italia, Spagna 1971
Genere: western

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4 (11 voti)

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