Abbandonare il locale, la mostra di David Horvitz a Milano

La mostra di David Horvitz presso lo spazio BIM di Milano permette di porre in questione lo spazio e il tempo attraverso il suo minimalismo. Fino al 30 giugno

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Abbiamo visto la mostra “Abbandonare il locale” di David Horvitz a Milano, aperta dal 13 aprile al 30 giugno presso lo spazio BIM, il nuovo centro polinfunzionale della Bicocca ottenuto dalla ristrutturazione di un grande complesso di uffici prima adoperato da Siemens.

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Horvitz, a cui abbiamo fatto anche qualche domanda, è un artista californiano già da tempo presente sulla scena internazionale, famoso per la sua continua ricerca usando varie discipline come fotografia, performance art, mail art e virtualità, e vincitore di premi come l’Henraux Foundation Prize nel 2018 o l’assegno di Follow Fluxus nel 2020.

Già dal titolo “Abbandonare il locale” (scelto insieme al curatore Nicola Ricciardi, direttore artistico di MiArt entro cui è organizzata la mostra) mette al centro del mirino l’assenza. Tuttavia questa assenza si inscena in uno spazio da riutilizzare come galleria d’arte. In questa contraddizione tra un imperativo di fuga e una volontà di restare per riutilizzare ci pare si muova il pensiero di questo artista.

Come spiegatoci dallo stesso Horvitz il titolo non deve per forza rimandare ad un luogo fisico. Può essere una fuga da qualunque situazione, fosse anche un tempo. Come se l’artista realmente puntasse il dito su uno spaziotempo da fuggire, consapevole contemporaneamente come tale movimento o tale desiderio siano solo un gioco.
Infatti è la sperimentazione dei linguaggi a stare alla base del lavoro dell’americano, quindi si deve intendere il suo moto di fuga quasi come la volontà di porre in contraddizione appunto quell’angolo di spaziotempo che cade sotto il suo sguardo per vedere cosa può succedere forzando le dinamiche.

In questo modo capiamo lavori come The Distance of a Day (2013) installazione in cui l’artista mostra due smartphones mandare immagini video di un tramonto filmato a Los Angeles e di un’alba filmata alle Maldive. La possibilità di unire due esseri viventi posti al limite del cono di luce solare sul pianeta crea una sorta di distante intimità che si incontra nella fuga da tutto ciò che sta loro attorno.

Nella mostra le macerie mostrate con orgoglio da Horvitz ridanno la sua idea di erosione come processo continuo. L’artista spiega che l’erosione è un tempo senza tempo, che non ha una fine né un’inizio, ma è un costante divenire. Sottolinea quindi come l’erosione sia presente anche nella perfezione. Questa è un tentativo di resistenza all’erosione, un tentativo che porta ad una negoziazione (DH dice proprio “negotiation”) tra i due fattori.

Questo ci permette di capire più precisamente come un ufficio dismesso alla Bicocca possa divenire una galleria d’arte e ospitare questa mostra. Fino ad essere opera d’arte per sé stesso, con interventi “site specific” dell’artista che “semplicemente” esibisce le prese degli interruttori privi della plastica di copertura d’ordinanza.

Per spiegare il concetto di negoziazione Horvitz usa l’immagine del giardino come luogo in cui si lavora costantemente per mantenere una certa linea botanica diversa da ciò che la forza della natura potrebbe volere. Non si deve però concepire come lotta tra le due posizioni, bensì come conversazione. Tale discorso si riallaccia al giardino reale che Horvitz cura a Los Angeles da qualche anno (anche come spazio artistico).

Nella mostra un certo tipo di negoziazione è suggerita dall’installazione Imagined Clouds (Milan) in cui in modo anche minimale (il minimalismo resta un importante componente del gesto di questo artista) varie bottiglie di plastica di differente forma e piene d’acqua sono raggruppate per terra a comporre una sorta di giardino o mandala. Per queste bottiglie l’artista parla proprio di “captivity” (cattività) delle molecole d’acqua che restano imprigionate in queste forme (“di marchio registrate” come dice Horvitz) fino al momento in cui non si riverserà il contenuto nel gabinetto a ricominciare il ciclo.

Vediamo quindi come tutto sia interconnesso, e come tempo e spazio sembrino solo accidenti di un disegno più ampio che l’artista si diverte a stuzzicare creando appunto dei piccoli stratagemmi, per puntualizzare quel momento, quel luogo, quell’oggetto.

Diventa quindi chiaro come sia possibile la volontà dell’artista di modificare la propria mostra anche durante il periodo di esibizione. Diventa chiara una installazione come Lullaby for a landscape in cui tubi di ferro appesi alla parete diventano strumenti musicali da suonare per creare quel momento di equilibrio sonoro che svanisce dopo un istante. La modifica data dall’azione è foriera di arte dello stesso valore dell’oggetto toccato per ottenerla.

Capiamo anche il lavoro di Horvitz come performer quando si pone come strumento dell’esperimento di vivere in Irlanda posizionando l’orologio sul fuso di Los Angeles.

No time No space come cantava Battiato e come è stata intitolata da Nicola Ricciardi la MiArt di quest’anno. Sospensione dello spaziotempo in modo da ingannarlo per trovare nuove traiettorie. Esattamente quello che fa David Horvitz.

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