
In prima mondiale il nuovo lavoro del grande filmmaker americano: venticinque storie dalle notti insonni di un uomo che fa cinema, tra incontri importanti (Ken e Flo Jacobs, Patti Smith, Yoko Ono, Harmony Korine) e brindisi con vino italiano. Una spiritualità immanente per un regista che dispone il suo sguardo alla narrazione delle sue personalissime “mille e una notte”
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Non un artista, ma un filmmaker, uno che i film li fa! C’è qualcosa di fondamentalmente disperato nella perentoria precisazione con cui Jonas Mekas apostrofava non so bene chi, forse solo se stesso, alla fine della proiezione Berlinese (prima mondiale al Forum il 18 febbraio 2011) di
Sleepless Nights Stories. L’esigenza di ribadire che il cinema è qualcosa che si fa, che risponde a una sua innata materialità, che prescinde dalle astrazioni “artistiche” e si colloca fermamente nella concretezza della vita, dell’esserci, del maneggiare momenti, eventi, attese, sentimenti del tempo cui si appartiene.
In Sleepless Nights Stories poi c’è anche l’architettura della narrazione, il grande gioco dell’intrecciare storie, vicende, con la sapienza del tempo che scorre giorno dopo giorno: il suo sogno dichiarato era quello di raccontare le sue mille e una notte di vita insonne, ma la concretezza della realtà (il peso del “fare” per l’appunto) gli ha posto il limite di venticinque storie, frammenti di vita colti nel tempo di incontri casuali, parziali momenti di esisenza che la leggerezza del digitale gli permette di filmare. Mekas dispone il suo spirito alla narrazione per affermare la persistenza di una spiritualità immanente, in cui l’intreccio più o meno casuale di presenze, di incontri cercati o trovati, di vicinanze e lontananze diventano trama di un tessuto esistenziale che tiene calda la vita e brucia la flagranza del “fare cinema”.

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Parte dal suo studio ricolmo di materiali, Jonas Mekas, dal suo spazio privato che l’urgenza dell’archiviazione, la contingenza del “sistema”, inscatola in box da numerare e ordinare (“la mia vita chiusa in queste scatole”) e, in onore delle sue notti insonni, finisce con l’uscire di casa in cerca di storie tristi, ma anche di storie fatte di bellezza. E l’intreccio si popola di incontri casuali o cercati, presenze amiche, distanze geografiche colmate da viaggi o spedizioni: appaiono Yoko Ono e Patti Smith, Ken Jacobs e sua moglie Flo, Harmony Korine che diventa padre, Louis Garrel in una buvette parigina… Si trasfigura un dolce e imprevedibile bestiario, che va dal bianco cavallo che nel mezzo di una performance impunta le zampe e lascia cadere la sua cavallerizza, alla lucertola di Lucca che posa a lungo per l’autore… Si beve molto, si suona l’armonica e si canta e balla, e poi si brinda in eterna gloria, tra la testimonianza in onore della filmmaker Marie Menken e la celebrazione del vino che giunge dall’Italia, da “Campagna, un piccolo paese ove Giordano Bruno celebrò la sua prima messa”… Si resta in ascolto di alberi antichi come elefanti, ma anche della voce di Artaud diffusa in una esposizione… E si finisce col desiderio di ritrovare il verde dei boschi dell’infanzia, il lamento di un uomo che ricorda se stesso bambino e vorrebbe recuperare quella leggerezza…

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Insomma, si parte dal peso della vita chiusa nelle scatole del suo archivio e si finisce nel gioco di riflessi e reminiscenze di un’infanzia trovata nel verde di un bosco, tra bimbi fantasmatici che giocano ai cavalieri con spade di plastica in mano e cappe di stracci sulle spalle: le storie delle notti insonni di Jonas Mekas hanno il sapore della vita che (rac)conta se stessa, del bilancio di un’esistenza che procede tra la pesantezza del fare (dell’aver fatto) e la leggerezza del vivere (dell’esser vissuti):
“That’s me, one ‘me’ of many. The very question of what is a story, is a provocative question” (Jonas Mekas).
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