#Berlinale2017 – Ana, mon amour, di Calin Peter Netzer

Netzer racconta per frammenti, secondo una struttura esplosa di salti temporali e ci immerge in un abisso di nevrosi, dove nulla è più vero e più puro, tanto meno l’idea d’amore. In concorso

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Ma qual è esattamente il male di cui soffrono Ana e Toma? Quello che si attacca alla carne e alle ossa della loro relazione, fino a distruggerla dal profondo, a bruciare ogni forma d’amore nell’impossibilità di condividere il quotidiano, nel bene o nel male… Forse è il destino della coppia collassare su stessa, a partire dal momento in cui il conflitto subentra all’intesa iniziale, a quell’illusione di perfezione che è solo una breve fuga effimera dalle fissazioni personali, dai bisogni egoistici che agiscono con impulsi incontrollati e reazioni fuori controllo. Al di là dell’aspetto patologico che ha la storia di Calin Peter Netzer, che agisce come una lunga seduta psicanalitica, in cui l’aspetto “interpretativo” finisce per mangiare da dentro ogni slancio emotivo e ogni possibilità di condivisione. Tra l’uomo e la donna, tra noi e loro, tra noi e le stesse immagini che esercitano, a partire dall’adesione iniziale, spontanea, una forza via via più respingente. Il freddo si sostituisce al caldo, fino a congelare ogni ipotesi di progressione, di vitalità ascendente.

 

ana mon amour1Toma e Ana si conoscono negli anni dell’università. Sono giovani, si piacciono, l’attrazione sessuale è immediata. Ma Ana soffre di ripetuti attacchi di panico, che controlla con degli psicofarmaci, assunti in dosi robuste sin da quando aveva 17 anni. Non si capisce bene quale sia all’origine dei suoi disturbi: la scoperta, durante l’adolescenza, che il padre con cui è cresciuta non è il suo vero padre, forse una serie di abusi e violenze… Tutto rimane avvolto nell’ombra. Ma fatto sta che, quanto più i due ragazzi vanno avanti con la relazione, contro la volontà delle famiglie, tanto più i problemi di Ana ne condizionano le dinamiche. La fragilità della ragazza, il bisogno che ha di cure e attenzioni costanti creano uno squilibrio terribile nel rapporto, che da un lato fanno sentire Toma più forte e assennato, dall’altro aumentano il suo stress e le sue nevrosi. Che esploderanno proprio quando Ana, dopo il parto e un nuovo percorso di analisi, sembrerà essere uscita dal periodo buio, pronta ad affrontare una vita più attiva e indipendente.

 

ana mon amour2

Netzer racconta per frammenti, secondo una struttura esplosa di salti temporali, di andate e ritorni lungo l’arco della vicenda, segnalati solo dall’aspetto esteriore dei protagonisti (i capelli di Toma, in particolare, la cui caduta registra l’effetto psicologico devastante del rapporto, prima ancora che il passare degli anni…). E per di più, tutti questi frammenti possono essere letti come “momenti” delle sedute di psicanalisi che Toma affronta dopo il divorzio (dove l’ottimo Mircea Postelnicu ritrova l’Adrian Titieni di Bacalaureat, ancora una volta nei panni di un medico poco rassicurante). Di cosa si tratta allora? Di ricordi? Di sogni, come si esplicita a proposito di una delle scene che vediamo nel finale? A mano a mano che procede nella narrazione, Netzer ne complica le traiettorie, aumentando le ambiguità, i margini di errore e di dubbio. Contravviene, a suo modo, a tutte le logiche del racconto che procede per progressioni, punti di svolta, risoluzioni. Ha una durezza che è solo in parte nascosta dall’apparente realismo piano dell’immagine. Ma mostra tutti i fluidi e tutti gli umori, anche quelli più indicibili, normalizzando il proibito, il rimosso, lo sconveniente, il morboso. Ci immerge a poco a poco in un desolato abisso di sfiancante nevrosi, dove nulla è più vero e più puro, tanto meno l’idea d’amore, che viene divorata dall’emergere di una realtà plumbea, ipocrita, che è la somma di una serie di impulsi mortiferi, di istinti stancamente voraci, di particolarismi appena mascherati da una forma di autoassoluzione permanente. Toma va dal prete e poi dallo psicanalista, come se fosse la stessa cosa. Vuole capire. Perché il discorso ha preso del tutto il posto della vita: quel parlare intorno, quell’analizzare e quindi sezionare le azioni, i sentimenti, le emozioni, per restituire il corpo morto, il cadavere squartato dall’esame autoptico. E, al tempo stesso, come per una somma punizione, quel discorso è costantemente interrotto da quell’inevitabile rumore di fondo (ancora una volta i cellulari che suonano a ripetizione) che disturba ogni comprensione.

Dalla religione alla psichiatria alla psicanalisi, le pratiche raccontate da Netzer sono mille, con tutte le resistenze, gli ingolfamenti, i transfert, i rifiuti del caso, la miscredenza e la fede. Non c’è, magari, un giudizio, ma di sicuro emerge l’ipotesi che la terapia non sia davvero possibile e finisca per coincidere con la malattia, in una specie di circolo vizioso che è sociale e poi individuale. Perché è questo mondo così logico, così “scientifico”, che fa le regole, dettando le norme e le eccezioni, il folle e il conforme, l’autentico e l’inautentico. Risucchiando sotto il piombo ogni energia.

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