BFM35 – Sguardi femminili, tra (ri)costruzione e sopravvivenza

L’edizione di quest’anno del Bergamo Film Meeting apre lo sguardo con decisione verso e dentro l’universo femminile, fra sopravvivenza, costruzione e transizione identitaria

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L’edizione di quest’anno del Bergamo Film Meeting apre lo sguardo con decisione verso e dentro l’universo femminile, catturando le traiettorie diverse di storie di battaglie, fra sopravvivenza costruzione e transizione identitaria, con tre lungometraggi che raccontano tre zone diverse del mondo, tre differenti incursioni di genere. I due film che aprono la sezione della Mostra concorso di quest’anno, Marija, film d’esordio del regista Michael Koch presentato al Locarno film Festival dell’anno scorso, e Voir du pays, opera seconda delle sorelle Delphine e Muriel Coulin che si è aggiudicato il premio Un Certain Regard a Cannes 2016 per la sceneggiatura, trovano un comune interesse per l’osservazione ravvicinata di identità in trincea. Marija è un ritratto secco, diretto, potente e dinamico di una donna mossa da un’incontenibile forza di volontà, con un’idea identitaria marmorea eppure a tratti vacillante.marija1 Koch scava nei meandri di una femminilità contraddittoria e fuori dal comune, che non ricerca o concede al suo personaggio principale (un’incisiva Margarita Breitkreiz) empatia o comprensione, ma si limita a (in)seguire la sua protagonista con schietto trasporto e una sincerità disarmante. E, tra le numerose stratificazioni e implicazioni possibili che il film suscita, ci racconta anche di quell’incontenibile vigore propulsivo di una persona sradicata e sola, che può solo aggrapparsi a un invincibile individualismo per sopravvivere.
E il senso di sradicamento, o piuttosto di estraniamento rispetto a un luogo, lo ritroviamo nella storia, tanto diversa, di Voir du pays, film nel quale l’isolamento costrittivo della realtà dell’isola di Cipro, marca (in questo secondo lungometraggio delle sorelle Coulin) ancor più l’uso come elemento significante e prepotente del luogo, luogo che – come e più del piccolo paesino bretone del film precedente – soffoca e aliena, diventando espressione esteriore di due identità impantanate in una terra di mezzo emotiva e materiale al contempo.

voir du pays2 Se lo spirito antimilitarista, che se è accennato nell’opera d’esordio, qui diventa vera e propria bandiera etica del film, a fare da collante alla storia è di nuovo l’attenzione all’universo femminile, soprattutto al rapporto tra donne. Lo sguardo delle registe come sempre seziona i corpi, i dettagli, si concede raramente scorci d’insieme, totalizzanti – e quando lo fa solitamente riprende il corpus del battaglione militaresco, sorta di macchia indistinta e disturbante con l’interessantissimo lavoro cromatico che si pone a complemento o a contrasto dell’ambiente circostante. Ma le figure ritratte stavolta, non sono quelle di identità in formazione, nel pieno del vigore giovanile, bensì il passo decisivo che compiono stavolta le due autrici sta nel rappresentare (anche se con una tendenza forse eccessiva a sovrapporre forma e sostanza) una femminilità fragile, violata, sfatta. In percorsi di necessaria costruzione identitaria che trovano proprio, in maniera in parte simile a ciò che ci racconta Marija, nello sradicamento e nell’annullamento delle certezze circostanti, necessario vigore propulsivo.

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Fale, opera prima del regista polacco Grzegorz Zariczny, fonda invece la sua cifra discorsiva sulla ricerca di certezze in un universo svuotato, desolato, che sembra ostile perché brucia le speranze nel futuro con la stessa velocità con cui il tabacco incandescente raggiunge il filtro delle sigarette che le due protagoniste Kasia e Ania sembrano divorare con disperata, e disperante, ingordigia.fale1
Qui è un’assenza, una destabilizzante mancanza di punti di riferimento quasi costitutiva nella vita delle due ragazze, a fungere da collante tra le storie di due adolescenti apprendiste parrucchiere. Provenienti entrambe da quartieri disagiati nella periferia di Cracovia, in questa Polonia ritratta con rarefatta malinconia, ma con vicende personali piuttosto differenti – e sarà verso Ania che si rivolgerà con più deciso interesse la mdp, con la sua storia complessa e drammatica – le due sedicenni troveranno l’una nell’altra il necessario e indispensabile supporto emotivo. Le “onde” del titolo, che rimandano al complicato esame di acconciatura da passare, diventano metafora di un atteggiamento verso la vita e verso se stessi, che stimola il difficile e traumatico processo di crescita e maturazione delle giovani protagoniste. Tra parchi giochi deserti, figure genitoriali disfunzionali e tossiche, sogni di una vita migliore che sembrano inafferrabili, il regista segue le vicende amare di Ania e Kasia. Senza orpelli drammaturgici, ma lasciando la storia svolgersi e riannodarsi con equilibrata libertà narrativa, non ricercando una morale ma non disdegnando un retrogusto di speranza. La speranza di una costruzione personale, di una ricerca di punti fermi scelti, sudati, mantenuti con impegno, come i tentativi infiniti per creare il ricciolo perfetto. In un universo al femminile in cui, di nuovo, la sorellanza sembra un valore, forse l’unico, che valga la pena di preservare.

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