"Bhutto", di Duane Baughman e Jhonny O'Hara
La struttura piuttosto tradizionale di questo film, fondata sull’alternanza di interviste e immagini d’archivio in un modo che si potrebbe definire “televisivo”, conferisce a Bhutto un valore che è puramente informativo. L’immagine sembra costantemente replicare il senso delle parole senza poter vivere di vita propria, senza aspirare mai a farsi racconto essa stessa. Non un brutto film, ma un film semplicemente "utile"
Con il suo folgorante inizio che racconta il ritorno in patria di Benazir Bhutto dopo otto anni di esilio autoimposto in Inghilterra, Sati Uniti e Dubai, il documentario diretto da Duane Baughman e Johnny O’Hara sembra voler fondare il suo discorso sulla forza dei suoni, delle immagini e del montaggio per rendere allo spettatore i tasselli di un puzzle da comporre e scomporre a proprio gusto, senza la necessità di una forza esterna razionalizzante che imponga l’obbligo di un ordine logico e cronologico da seguire. Ma è solo una fugace illusione, una luce tanto abbagliante quanto effimera che si spegne troppo presto e riporta questo film – comunque interessante – nei ranghi di un classico documentario di pura informazione storico-politica.
Non inserire il nome Benazir nel titolo del film è forse un chiaro segno della volontà dei due autori di illustrare la storia di una “dinastia” più che quella di una singola personalità politica; perché, se è vero che Benazir Bhutto con il suo percorso umano e politico, con le sue scelte difficili e coraggiose e con la sua tragica e prematura scomparsa è ormai diventata un’icona internazionale e un esempio per tutti coloro che credono nella democrazia e nell’uguaglianza sociale e sessuale, è altrettanto vero che dentro di lei è cresciuto il germe impiantato dal padre Zulfikar Ali Bhutto, primo presidente democraticamente eletto nel Pakistan, deposto da un colpo di stato militare e giustiziato nel 1979 in seguito all’infamante accusa di corruzione che, di lì a qualche anno, sarebbe stata avanzata anche nei confronti della figlia. I registi vogliono rimarcare questa continuità dedicando buona parte del film (quasi un’ora) al periodo in cui Zulfikar Bhutto ricoprì la carica di primo ministro e riservandosi in appendice un’annotazione che sottolinea l’attuale stato delle cose con il marito di Benazir Bhutto eletto presidente del Pakistan e suo figlio Bhutto Zardari a capo del PPP (il Partito Popolare Pakistano).
Il filo narrativo del film è fin troppo chiaro e interessante, ma non si può non notare come questo documentario si tenga esclusivamente sull’interesse suscitato dalla storia. La struttura è piuttosto tradizionale e fondata sull’alternanza di interviste e immagini d’archivio in un modo che si potrebbe definire “televisivo”, con l’immagine che sembra costantemente replicare il senso delle parole senza poter vivere di vita propria, senza aspirare mai a farsi racconto essa stessa. Eppure, restando nel ristretto campo del “documentario politico”, non mancano certo esempi di film che fondandosi sulle interviste (The fog of war di Errol Morris) o sul materiale d’archivio (Point of order di Emile De Antonio) sono comunque riusciti ad imporre un taglio molto personale dell’autore che lascia emergere l’ostinazione a non farsi soffocare dal racconto e a ribadire costantemente il proprio controllo su di esso. Il limite di Baughman e O’Hara sta nel volersi limitare ad informare, come se la visione del loro film potesse tranquillamente essere rimpiazzata dalla lettura di un saggio biografico perché la consistenza dei corpi e dei volti filmati è di poco conto, o è comunque subordinata alle parole.
Non un brutto film dunque, ma un film semplicemente “utile”. Un’opera che – consapevolmente – si limita ad informare e a diffondere un’idea di democrazia nella quale si spera che qualcuno possa credere ancora. Fuori, ma anche dentro casa nostra.