Blog ILCIOTTASILVESTRI. Suspiria di Luca Guadagnino

Per Roberto Silvestri, l’operazione di Guadagnino su Suspiria è “un critofilm pienamente perverso”, equidistante dalla cattedrale di Argento come da Germania in autunno

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La crudele storia d’amore tra Fassbinder e Dario Argento

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Aumentare il tasso di crudeltà e diminuire quello di horror, rispetto al Suspiria originale. Crudeltà vuol dire non sfornare mai allo spettatore immagini precotte. Ricondurlo a uno stato percettivo e ricettivo estremamente pericoloso. E poi. Aumentare il peso della storia dell’arte, della politica e del sesso. Rendere omaggio all’immaginario femminista anche iconografico, Gina Pane, Francesca Woodman, Judy Chicago e Ana Mendieta… Questo il progetto provocatorio, e anticonformista come Black Panther, di un film-remake di un remake (il primo progetto naufragato era stato scritto da Luca Guadagnino con David Gordon Green) sul Potere che trasforma le tre Madri, le streghe danzanti, in supereroine (capaci di scovare, affrontare e abbattere la psicoanalisi lacaniana del dottor Jozef Klemerer), e questo già irrita, e poi metterle pure in conflitto tra loro. E il conflitto, come si sa, non è più di moda. La strega della continuità e della tradizione, Helena Markos. La strega del rinnovamento, Madame Blanc. La strega della discontinuità sovversiva… Le tre madri si azzuffano. E vince la ‘rivoluzione di velluto’ di Dakota Johnson-Suzie Bannon.
Figuriamoci. Il tutto lavorando su due testi, e non solo su quello di Argento. Anche su Germania in autunno. Perché Fassbinder, più ancora di Visconti, la sua crudeltà più del gusto macabro per la fiaba nera di Argento, è il punto di riferimento formale di questa nuova avventura visiva e musicale di Guadagnino (più Thom Yorke), come lo era di Io sono l’amore. E che dire del contributo cromatico del direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom? Dove abbiamo visto quei grigi impuri, quelle ombre verdastre, quelle sfumature di marrone Fendi e di sangue non di routine, insomma tutto ciò che non è bianco né nero, perché i cattivi e i buoni amano travestirsi sempre da loro contrario? Ma in Balthus! Le adolescenti nude. Dunque un critofilm pienamente perverso, dalla parte di Woody Allen e non di Timothée Chalamet. Speriamo che turbi molto questo film. Non succedeva più neppure che Fofi o il New Yorker o il NYTimes s’incazzassero…

Cos’è un critofilm? Un film che critica un oggetto o un soggetto dell’arte letteraria, pittorica, scultorea, musicale o architettonica, ci aveva insegnato Carlo Ludovico Ragghianti. Ma, nella primavera del 1967, il futuro regista Luigi Faccini, in un intervento sul n.1 di Cinema&Film, ne amplia il significato. Si può pensare e scrivere per immagini: “Il pensiero visuale è diverso da quello verbale, forse più ampio e significativo, più moderno, più sintetico, più espressivo e comunicativo, anche sul piano filosofico e saggistico”. Inoltre il “fatto critico” può essere trasferito finalmente nella sede linguistica adeguata all’oggetto preso in esame, si può fare critica di un film girando un film (il critico e futuro regista Maurizio Ponzi aveva appena girato il critofilm Il cinema di Pasolini).
Come la critica letteraria anche la perifrasi del critico cinematografico diventa così

linguisticamente identica all’opera e analoga al senso, alla struttura e al ritmo dell’opera filmica. Erede e sintetizzatore di Joe Dante e Jean-Luc Godard allo stesso tempo, Luca Guadagnino viene dalla critica scritta e ogni suo lavoro, perfino Chiamami col tuo nome (che si confrontava con il sistema James Ivory) è un crito-film, cioè un esplicito lavoro di tatuaggio che lui e il suo montatore d’affezione, Walter Fasano, compiono su testi prediletti o di ossessiva o demoniaca “forza” per abbellirli, adornarli, chiosarli, parafrasarli, cancellarne parti, rinnegarli, riaggregarli e criticarli, “costruttivamente” o “distruttivamente”. Non si lavora solo Suspiria di Argento, ma anche in sovrimpressione su Germania in autunno, il film collettivo che proprio sulla contrapposizione tra vecchia Germania-nuova Germania, tra il 1977 e il 1980 si esprime, senza compromessi di alcun tipo. Il rapporto tra Madam Blanc, la maestra di danza (una delle parti di Tilda Swinton), e Suzie Bannon, l’allieva che è una sorta di Biancaneve, non possiede la stessa violenza, lo stesso seduttivo conflitto artistico e intellettuale di quello tra madre-figlio e tra regista e amante dell’episodio di Fassbinder in quel capolavoro sul riflusso del movimento rivoluzionario mondiale?

Questa anomala mancanza di spontaneità narrativa, il meditare, anzi concettualizzare sulle immagini-suono, sulle immagini-spazio e sulle immagini-sguardo hanno reso problematico il rapporto con una parte di pubblico, soprattutto italiano, quella più rigida e meno ludica, che considera questo procedimento di arrangiamento da “cover” una “frivolezza floreale” (e Io sono l’amore un sotto Visconti, o Melissa P un sotto Jarman).
Siamo abituati, se pigri o analfabeti schermici, più ancora degli spettatori americani, a non giocare con le immagini potenti, a non contribuire al finish artistico libertario di un film, ad affidarci invece completamente alla potenza delle immagini (come alla prepotenza dei politici “muscolari”), che siano forti e autoritarie, che non ammettono ulteriori “decostruzioni”.

Invece il lavoro “futile” di Guadagnino sui testi è la novità estetica più interessante e feconda degli ultimi anni. Uso il temine futile nell’accezione etimologica latina. La crepa, la rottura del vaso che fa fuoriuscire il liquido dando altra forma al “contenuto”. Fertilizzandoci il cervello. Che dal soggetto di Argento e Nicolodi, ispirato a sua volta a Wedekind di Mine-haha, la scuola di danza per adolescenti che nasconde segreti insostenibili, si possa rifondare, tramite incrinatura del vaso, il nostro rapporto con la gerarchia simbolico uomo-donna e con la memoria meno antica (l’antisemitismo, la shoa; il musical d’arte da Busby Berkeley a Powell-Pressburger, da 42th street a Scarpette rosse e quanta sofferenza e violenza sia nascosta nell’arte, perché anche l’arte ha una storia) e più recente (la nascita della Ddr, la guerra civile e anti imperialista in Germania degli anni ’70), conferma la unicità di questo film anche per Guadagnino (una sorta di rinascita e di esperimento è questo suo primo horror movie) e anche la grandezza culturale di quel movimento artistico degli anni ‘60 e ’70 troppo dimenticato e che non casualmente interessò Austria, Germania e Italia contemporaneamente. L’arte concettuale appunto, antisessista, antirazzista e antiautoritaria, alla quale Guadagnino questa volta esplicitamente si rivolge. Per mostrare e non per dimostrare. Il corpo forsennatamente dilaniato di Stelarc, le “tette a portata di mano” di Valie Export, l’eco-arte di Beuys, i giochi attici di Pino Pascali, le sfere anti-securitarie di Sergio Lombardo, gli akzionisti e le akzioniste austriache (non quelli della finanza), le orge di sangue di Otto Muhl, la mummificazione suicida di Rudolf Schwarzkogler, le schizo-passeggiate di Gunter Brus con l’anima divisa in tre, per dire un grande sì alla vita nonostante possenti e subdole aggressioni arrivassero da ovunque, neo-fascismi, caccia bombardieri in Vietnam, carri armati in Israele, eroina nelle metropoli, molestie e oltre alle donne… ecco tutto quel che ritroviamo – scandalizzando a morte i puristi puritani dell’horror perché in questo modo l’horror è costretto a far strip-tease – in questo grandioso e inquietante film “triadico”, e non solo per la triplice performance di Tilda Swinton, ma per il gioco di scrittura contemporaneamente umano, sovrumano e subumano.

E anche nel senso che lavora, secondo le istruzioni di Eisenstein, sul corpo terragno, sul corpo roteante e sul corpo librante. Mano. Piede. Spirito? Lavoro. Fuga. Ascesi. Se si è terrorizzati come si fa a non essere terroristi? Ritrovando, nell’era digitale, il contatto. Il tatto. Il senso “comune”. E “il tatto ha memoria”, come ricordava il poeta John Keats. David Kajganich, il cosceneggiatore di Suspiria-Guadagnino, fa benissimo a ricordare lo sguardo tattile sulla Germania occidentale di Thomas Harlan, il primo a ribellarsi alla continuità tra nazismo e repubblica federale di Adenauer che aveva infarcito i posti di comando politico-finanziario di ex gerarchi del III Reich. Fassbinder proseguì nell’opera di ribellione e smascheramento di quella rimozione storica con il suo anti-teatro e anti-cinema (e la sua ex moglie Ingrid Caven è qui a ricordarcelo). Molti registi del nuovo cinema tedesco, come Margaret von Trotta si sono confrontati con il terrorismo Baader-Meinhof e con la tolleranza repressiva di Bonn (a Angela Winkler è qui a ricordacelo). Al critofilm adulto che imprigiona il “pensiero sensibile” dentro gelide atmosfere strutturaliste Guadagnino contrappone però, da neo-beatnik, da femminista convinto, da seguace di Dante e di Godard e di Bertolucci, il calore vitale dell’home movie, del film privato che ha un movente antico (a 10 anni, quel poster pauroso del film di Argento sbirciato, adorato e mal metabolizzato a Cesenatico, quando era in vacanza solo e in asilo), un senso autobiografico forte, una cinematica ossessione adolescenziale, che costringe al remake inaspettato, al film che, come ha scritto Larry Gross sulla rivista americana Filmmaker “al posto dei colori brucianti, di una colonna sonora minacciosa e della fiaba nera, sceglie la strada profondamente fastidiosa della riflessione semifilosofica sull’arte, la performance e le radici storiche del male”. Senza sacrificare i viscerali piaceri di un film di genere, continua Gross (che è anche un collega sceneggiatore), Guadagnino sa espandere il suo raggio d’azione a temi sociali e politici, come sanno fare pochi altri cineasti. E tra questi Francis Ford Coppola nella saga politica-gangsteristica Il Padrino. Come Dreyer e Bunuel, Cronenberg e Bergman, Resnais e Kubrick, Aldrich e Carpenter, anche Guadagnino tende più a storicizzare il male e i cattivi che a moralisticheggiare sul peccato, dovere di ogni buon film horror, come ci ricordava Stephen King.

Non poteva mancare dunque nel film la foto di un cineasta che quei tempi ha scolpito, il militante comunista rivoluzionario nonché grande cineasta Holger Meins, che fu l’unico che davvero si suicidò fino alla disincarnazione totale, della Baader-Meinhoff, offrendo il proprio corpo come Pasolini, in pasto al Moloch, per evitare ulteriori catastrofi. Le “tre madri”, appunto, che si contendono non senza spargimento di sangue il controllo del simbolico, strappandolo al fallocentrismo che “ha tante colpe e tante vergogne” da scontare (non dimentichiamo mai che a Guadagnino si deve l’unica riflessione cinematografica del nostro razzismo criminale all’opera in Etiopia, in un paese che lo ha rimosso completamente, perfino dalla parte progressista, Inconscio italiano, 2011). L’ immersione dentro il testo cult come la cattedrale horror di Dario Argento dunque è riuscita. Grazie a un cast impeccabile e a danze e musiche che più che a Bausch rimandano a gesti, movenze, e rigidità da karate. Più a Chuck Norris che a Bruce Lee. Tranne, nel finale, addolcirsi. Flashdance. Spielberg. E’ stato chiesto a Guadagnino perché dopo il calore sottile e l’umanità densa di un amore totale catturati in Chiamami col tuo nome avesse sterzato verso la rabbia di un horror. “Entrambi i film parlano di esseri umani e delle loro emozioni. A volte prevale la malinconica fusione d’amore, altre volte il devastante insorgere della violenza”.

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