CANNES 56 – Nomadismi terminali: "Robinson's Crusoe" di Lin Cheng-Sheng e "Talaye sorgh" di Jafar Panahi

Sia il film taiwanese che quello iraniano sono due esempi differenti di distanziamento ed estraneità del protagonista rispetto sia alla città sia agli altri personaggi. Incuriosisce "Robinson's Crusoe", lascia indifferenti e leggermente infastiditi "Talaye sorgh"

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Mentre nel concorso stanno passanto gli ultimi film – Sharasojyu di Naomi Kawase, Père et fils di Aleksandr Sokurov e The Tulse Luper Suitcase di Peter Greenaway, si stanno esaurendo anche le sezioni collaterali da dove sono emerse, per questa edizione, poche sorprese interessanti. Per "Un certain regard" è stato proiettato Robinson's Crusoe del taiwanese Lin Cheng-Sheng che vede protagonista un uomo, di nome Robinson, che gestisce un'impresa immobiliare assieme a degli amici. Vive da solo in un hotel e ha un grande sogno nella sua vita: quella di recuperare il denaro necessario per potersi acquistare un'isola. L'opera gioca spesso su volontari distanziamenti, in cui i contatti tra i corpi sono ridotti al minimo. La città spesso vista dall'alto, i posizionamenti del protagonista con le figure femminili, le inquadrature che appaiono spesso come raggelate. Una composizione prospettica di volumi e prospettive ben equilibrata in un'opera che estremizza al limite la solitudine dell'individuo, alimentandolo con le sue utopie/apparizioni (quella dell'isola). Il film di chiusura del "Certain regard" è invece l'iraniano Talaye sorgh di Jafar Panahi, altra vicenda di una solitudine, quella di Hossein, che finisce per rapinare una gioielleria dei quartieri alti di Teheran prima di suicidarsi. Il regista iraniano cerca di attraversare i luoghi trasversalmente, di utilizzare Teheran quasi come indicatore economico, di mostrare il proprio protagonista a contatto con diverse, impercettibili, umiliazioni/tentazioni quotidiane. Panahi si avvicina alla forme di un "neorealismo borhse" ma il dettaglio (l'abitazione lussuosa del ragazzo a cui consegna la pizza, la finestra dove si sta svolgendo una festa) mette in secondo piano una disperazione solo narrata ma che non tocca veramente. Panahi infatti lascia agire il suo protagonista in piani lunghi che lo consumano, guardandolo sempre con un'oggettività che sembra raggiungere la totale indifferenza. Le immagini di Panahi sono già elaborate, distanti da quel realismo di Il palloncino bianco. Dopo il deludente Il cerchio, Panahi sembra aver scelto nuove soluzioni pur rimanendo coerente alla propria visione e(ste)tica della realtà. Non si è però sicuri che questa sia la strada più giusta.

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