CANNES 58 – "Le temps qui reste", di François Ozon (Un certain regard)

Il cineasta francese sembra aver scelto di filmare la morte come se si trattasse di un qualsiasi soggetto e non una vicenda sentita. E ciò si avverte non solo nell'indifferenza di sguardo ma anche in momentiche, francamente, sfiorano il ridicolo. Ozon appare ormai quasi un Michael Winterbottom alla francese. E non è un complimento

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Filmare la morte è sempre un atto estremo per il cinema. O lo si fa con un procedimento documentarista, oppure ogni inquadratura, ogni piano diventa sempre una questione morale. Di pellicole francesi, per esempio, si possono ricordare il riuscito La morte in diretta di Tavernier del 1980 o l'intensissimo e struggente Son frère di Patrice Chéreau, davvero opera sul disfacimento di un corpo. Anche Le temps qui reste apparentemente si inserisce in questa linea di cinema sulla morte e vede protagonista Romain (Melvil Poupaud), è un giovane fotografo che apprende dal medico che ha un tumore e non gli resta più molto tempo da vivere. Ozon filma fisicamente i segni della malattia come gli atti sessuali, mostra gli altri personaggi che ruotano attorno al protagonista (dai genitori, alla sorella con cui ha un rapporto difficile, alla nonna, alla coppia che gli chiede aiuto per concepire un figlio visto che il marito è sterile) ma Ozon disperde il dolore privato in una serie di azioni che tendono volontariamente a drammatizzare spettacolarmente il dramma personale del protagonista. Ad un certo punto Romain va a trovare la nonna (Jeanne Moreau) e le fa una foto prima di salutarla per sempre. Il personaggio di Le temps qui reste convive sempre con l'immagine, sia quella degli altri (gli scatti fotografici) sia la propria (il guardarsi allo specchio). Ozon poi gioca sul continuo contrasto passato/presente, aprendo il film con Romain bambino sulla spiaggia e chiudendolo sempre su quel luogo con il protagonista ormai adulto. La filmografia di Ozon, da Sitcom del 1998 è ormai vasta (realizza regolarmente un film all'anno) e, tranne i felici risultati raggiunti con Gocce d'acqua su pietre roventi e Sotto la sabbia, appare alquanto informe. Le temps qui reste appare quindi alla fine come un vacuo esercizio narrativo di un cineasta che può apparire anche eclettico ma del quale sembra essersi persa una linea coerente nel proprio modo di fare cinema. In Le temps qui reste il cineasta francese sembra aver scelto di filmare la morte come se si trattasse di un qualsiasi soggetto e non una vicenda sentita. E ciò si avverte non solo nell'indifferenza di sguardo ma anche in momenti che, francamente, sfiorano il ridicolo, come l'immagine di Romain disteso agonizzante sull'asciugamano della spiaggia e un bambino che arriva lì col pallone che non è altri che lui bambino. Ozon appare ormai quasi un Michael Winterbottom alla francese. E non è un complimento…

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