CANNES 66 – Incontro con Takashi Miike per “Shield of Straw”

takashi miike

È il giorno di Takashi Miike, ormai di casa a Cannes, dopo la partecipazione in concorso di due anni fa con Hara-kiri e il film fuori concorso della scorsa edizione For Love’s Sake. E Shield of Straw è di nuovo in gara per la Palma d’oro. Un action teso che s’interroga sulla tenuta dei codici morali di fronte al potere perverso del danaro e ai dubbi della giustizia. Ma, nonostante le premesse, il film non è stato accolto con gran favore in proiezione stampa

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takashi miikeÈ il giorno di Takashi Miike, ormai di casa a Cannes, dopo la partecipazione in concorso di due anni fa con Hara-kiri e il film fuori concorso della scorsa edizione, For Love’s Sake. E Shield of Straw è di nuovo in gara per la Palma d’oro. Un action teso che s’interroga sulla tenuta dei codici morali di fronte al potere perverso del danaro e ai dubbi della giustizia. Ma, nonostante le premesse, il film non è stato accolto con gran favore in proiezione stampa. Ecco il resoconto della conferenza, a cui Miike si è presentato con gli attori Nanako Matsushima e Takao Osawa.

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La prima domanda è sul concetto, difficilmente traducibile, di “giri”, ovvero l’obbligo del compimento del proprio dovere. Nel suo film, sembra voler confrontare questo concetto del codice di comportamento tradizionale giapponese alla società contemporanea attraverso la strada del cinema d’azione.

Quando si mostra un personaggio, si racconta un essere umano, occorre raccontare tutti i problemi e i dubbi che lo riguardano. I miei personaggi, nonostante siano poliziotti e criminali, hanno una vita quotidiana come tutti e questo, naturalmente, influisce sui loro comportamenti e le loro scelte morali. È questo che ho voluto raccontare.

 

Ci sono state difficoltà nelle riprese delle scene d’azione?

In effetti le riprese sono state piuttosto complicate, perché nel cinema giapponese si è perduta completamente la tradizione dei film d’azione. Non è un problema del pubblico che non ha più voglia di vedere questi film. É piuttosto un problema di mancanza di professionalità, di tecnici, di controfigure, cascatori. La mia è stata dunque una sfida. Volevo fare un film spettacolare e ho cercato di farlo al meglio. Ad esempio, per le scene del treno ad alta velocità, non ci è stato concesso il permesso di girare sulle ferrovie giapponesi e siamo dovuti andare a Taiwan.

 

In che modo il suo film, piuttosto critico nei confronti delle istituzioni, riflette la società giapponese di oggi?

La società giapponese è in trasformazione come tutte le altre. Ma i principi tradizionali credo permangano ancora nel profondo, sono ancora vivi, nonostante le evoluzioni dei costumi.

 

Quando è stata presentata la selezione, il suo è stato definito un grande film hawksiano, il che riflette, in qualche modo, la trasformazione in atto nel suo cinema, sempre più teso a un classicismo formale. Lei cosa ne pensa?

Non credo che io mi sia evoluto. Credo che sia una cosa naturale quando si girano molti film. Quello che cerco in ogni caso di fare è mettere la mia originalità nel cinema che faccio, sia di forma più classica o più sperimentale.

 

Sono passati trent’anni da quando Shoei Imamura vinse la Palma d’oro a Cannes con La ballata di Nanamura. Come si sente oggi a rappresentare il Giappone?

Lei mi dice che son passati trent’anni e penso a quanto il tempo sia crudele. Forse è proprio perché il tempo corre così in fretta che si ha voglia di fare film. Anche se il cinema di Imamura è così diverso dal mio, c’è qualcosa che mi ha insegnato, nel metodo, nel modo di approcciarsi alla regia: bisogna fare film con ciò che si ha. A volte si cerca l’originalità a tutti i costi, ma se uno gira con quello che ha, l’originalità nasce spontaneamente.

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