CANNES 66 – “Michael Kohlhaas”, di Arnaud des Pallières (Concorso)
Tratto dal racconto di Heinrich Von Kleist, il film si ispira ad una storia realmente accaduta di un mercante di cavalli nel sedicesimo secolo, vittima di un ingiustizia, che mette a ferro e fuoco una provincia della Germania, per trovare giustizia. Favola naturalistica, tragedia storica, tanto da scomodare alcuni grandi esperti in materia…

Aguirre furore di Dio di Herzog, I sette samurai di Kurosawa, Andrej Roublev di Tarkovski. Da questa vicenda avremmo potuto far incontrare tre mostri sacri. In realta’ il regista sembra particolarmente ossessionato dall’inseguirli appunto, da non riuscire totalmente a convincere. L’opera trasposta e’ assai complessa e piena di insidie. Avrebbe potuto essere anche un salto nel vuoto, un tremendo monolite senza vie di fuga. Ma grazie all’interpretazione rigorosa e potente di Mads Mikkelsen e ad una certa padronanza registica nel maneggiare tutto l’apparato naturalistico della location, Michael Kohlhaas trova i suoi punti di forza e la sua ragione d’essere. Il racconto di Von Kleist comportava una condensazione di mondi favolistici, fantastici e una poderosa dose materilistica.
Arnaud des Pallières, in fondo, riesce nell’intento dimostrando di saperci fare, soprattutto nel riuscire ad inquadrare con una luce ammaliante e un uso coinvolgente dei suoni naturali, come il vento, i versi degli animali, in presa diretta. Il viraggio verso il genere western e’ sotteso, proprio perche’ tutti i personaggi (tra gli altri, ci sono Bruno Ganz che interpreta il governatore e Denis Lavant che fa la parte di un predicatore) sono immersi nella natura, tra gli animali (c’e’ anche la scena di una cavalla che partorisce).
Il western pero’ diventa leggenda, mito. Michael Kohlhaas fatica in tal senso, anzi, sembra prigioniero del suo stesso spirito condottiero, perche’ appesantito dalla ricerca a volte ossessiva di pose più che di sincera e incontrollata sete di vendetta prima e agonia dopo.
Film eccessivamente ambizioso, ma certamente intrigante, perche’ assai complesso. In fondo pero’, se di Herzog non c’e’ mai totalmente l’impressione che la natura possa sopraffare l’uomo, di Kurosawa mancano i toni lievi e tragici insieme, di Tarkovski una tensione lirica insita nell’inquadratura, Michael Kohlhaas si pone in totale opposizione anche all’opera di Eric Rohmer, tratta dall’omonimo racconto Il Marchese d’O, perche’ priva (volutamente e/o forzatamente) di quella bramosia di grazia ed eroismo.