Children of the Mist, di Diem Ha Le

Un interessante esperimento della visione, la ricerca di una nuova forma del racconto, un’opera al tempo stesso aperta al suo divenire che fa venire in mente un testo interattivo. Al FESCAAAL31

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Non è tanto per la storia o per la ricerca anche antropologica che il film finisce con il diventare, ma, piuttosto, vale la pena di parlarne per ciò che prevale su tutto, per quel valore aggiunto che fa pregevole l’esordio della giovane regista vietnamita, un valore che risiede nella spregiudicatezza dell’uso del cinema e nel coraggio di lavorare su un soggetto di per sé non semplice. Ma soprattutto perché Diem Ha Le vuole rendersi la vita ancora più difficile inventandosi un modello di racconto cinematografico in equilibrio – diremmo – dinamico, tra fiction, documentario e reality. Nulla di nuovo, d’accordo, ma è proprio l’equilibrio della combinazione di questi tre canoni a liberare le energie positive di questo film. Di quelle che risiedono nel suo lato narrativo di cui alla parte della finzione, di quelle che si possono cogliere nel profilo antropologico-documentaristico, e infine di quelle ulteriori energie che si evidenziano nella parte in divenire, come in un work in progress ininterrotto al pari di un serial televisivo.
Il film, che fa parte della sezione principale Finestre sul mondo del FESCAAAL numero 31, racconta la storia di Di, una ragazzina quattordicenne che vive tra gli scenari quasi magici delle montagne del Nord del Vietnam. La giovanissima Di vede interrotta la sua vita, divisa tra scuola, lavoro nei campi e vita familiare o con le amiche del cuore, dal rapimento di un suo giovane spasimante. Come si usa in quelle società Di è quasi costretta a convolare a delle nozze che rifiuta, non solo per la sua giovane età in rapporto alle responsabilità che la decisione comporta, ma soprattutto perché è la sola tra le sue coetanee a non provare nulla per il ragazzo che la vorrebbe sposare.
Children of the mist è dunque un racconto che ha tutte le potenzialità per coinvolgere lo spettatore, ma si rivela, soprattutto, un interessante esperimento della visione, della ulteriore mutazione del cinema, della ricerca di una nuova forma del racconto. Un’opera aperta al suo stesso divenire, come in un testo interattivo, nel quale diventa essenziale la presenza ininterrotta e consapevole della cinepresa – i personaggi si rivolgono spesso al mezzo che riprende le loro azioni – e del suo operatore o forse, meglio, operatrice. È in questo azzardo narrativo che si rivela il coraggio di cui si parlava e che va pienamente riconosciuto alla giovane Ha Le. Le va quanto meno riconosciuto di avere voluto sperimentare questo triplice incrocio, senza fare diventare il film un esercizio teorico o un pedante manuale di teoria filmica. Il suo profilo antropologico e narrativo, abbracciando il film un lungo arco di tempo e costituendo la narrazione un altrettanto lungo flashback dopo un incipit nel quale prevale il ricordo, sa fare diventare il racconto emozionante e sincero lo sguardo sulla condizione femminile dell’adolescenza, sapendo offrire momenti nei quali si coglie a pieno l’intimità sentimentale della ragazzina.

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È lei, infatti, la giovane protagonista, alle prese con il mondo della sua età, in un luogo isolato e lontano da ogni bisogno indotto se non il gioco e le prime emozioni del cuore, a essere il focus del racconto nel quale confluisce sia il desiderio di mostrare una realtà sconosciuta nella quale si mettono in discussione le tradizioni, sia il segreto dolore di una adolescenza interrotta e in parallelo di una responsabilità diffusa che obbliga a questa condizione. Una responsabilità che colpisce la comunità contadina a cominciare dal (consapevolmente) distratto ambiente familiare.
Esperimento dunque riuscito per Diem Ha Le che ha saputo lavorare con intelligenza sulla scrittura che sorregge il profilo formale del film al quale, forse, avrebbe giovato l’eliminazione di qualche lungaggine di troppo che, a tratti, appesantisce la visione, ma tutto resta nell’ambito di una venialità sopportabile, per un film che sa offrire anche altro allo spettatore.
Children of the Mist ha quindi il pregio di scombinare, ancora una volta, i canoni della narrazione cinematografica, di sparigliare i temi di quel cinema di narrazione con invenzioni ardite e inattese e resta emblematico il gesto deciso della giovane Di che oscura l’obiettivo per ottenere l’intimità necessaria, evidenziando, a quel punto, quello sguardo altrui che la tiene costantemente d’occhio come in un altro Truman show.
Un film che dunque scombina anche l’ordine della visione, disturba il canone della sicurezza dello spettatore costringendolo ad adattarsi a questa differente narrazione nella quale sembra inciampare e per un esordio ci pare che sia più che sufficiente per un film fatto anche di ricordi oltre che di singolare originalità narrativa.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
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