Cinema Svizzero Contemporaneo – Love Me Tender, di Klaudia Reynicke

In programma oggi per la rassegna in streaming della Cineteca di Milano, il film di Klaudia Reynicke racconta di agorafobia e Passacaglie della vita

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In tempi di quarantena si vive giocoforza una reclusione forzata. Seconda, la protagonista di Love me tender, soffre di agorafobia, un disturbo a largo spettro complice di molti tipi di paura, dal semplice timore degli spazi aperti, all’incubo delle piazze affollate, al terrore di uscire di casa. Chiusa in appartamento ordinario, inizialmente insieme ai genitori, sopravvive mimetizzando l’assenza di contatto esterno dietro rituali quotidiani, prossimi a diventare dei semplici palliativi, in un costante aumento di inefficacia. L’isolamento alla lunga genera insofferenza, è reso dall’inerzia nudo di fronte alla lacune e alle privazioni, e perde il suo fascino introspettivo come angolo nascosto per coltivare le proprie passioni. Il guscio protettivo diventa una gabbia, e sorgono necessità escluse fino ad un attimo prima. Love me tender è stato presentato alla 72 edizione del Locarno Film Festival, tra i Cineasti del presente, per poi sbarcare in Canada, a Toronto nella sezione Discovery, e in questi giorni all’interno della rassegna Il cinema svizzero contemporaneo della Cineteca di Milano.

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Il racconto della protagonista corre sul bisogno di aprire una finestra sul mondo (siamo in Svizzera nella zona di Chiasso nel Canton Ticino), trattato con un disprezzo pari al desiderio di poterne fare parte, spiato dal quel microcosmo dove cresce la voglia di fuggire. Un’urgenza resa impellente dall’improvvisa scomparsa dei genitori, per dileguamento o fatalità, e l’emergere, nella solitudine, della disperazione.

Considerata la struttura è abbastanza naturale il peso maggiore gravi sulle spalle dell’attrice Barbara Giordano, infatti tocca a lei ha il compito di mostrare le diverse fasi di adattamento in una cifra stilistica ai limiti del grottesco. Una trasformazione restituita con il ricorso ad una performance corporea, per poi infilarsi, in vista di un’esplorazione di territori ancora sconosciuti, dentro una sarcastica tuta da supereroe. La lettura elementare ed immediata lascia spazio ad una stratificazione astratta, implicita al rifiuto di socialità, identificabile innanzitutto nel combattere una guerra con un ambiente poco solidale. Ed un sistema, quello patriarcale, da rinnegare in ogni modo. Le figure maschili vengono fatte a pezzi, il padre fuggitivo, un giovane malintenzionato ed il vecchio sporcaccione.

Il peccato originale, l’epicentro della nevrosi, resta comunque ancorato dentro una dinamica familiare, la perdita della sorella primogenita, Justine, scomparsa in tenera età, e l’attivazione di un processo di sostituzione, di rimpiazzo, impossibile e logorante. Lo sguardo stavolta è di segno contrario, rivolto verso l’interno, l’ostinazione, la negazione della scoperta è contemporanea ed opposta. Fatta chiarezza sull’aspetto interiore, quella luce espanderà un raggio sempre più grande. Esposte le intenzioni, il tentativo di elaborare un cinema dei tempi morti soffre la difficoltà di assecondare un ritmo quasi immobile, l’impiego di una gestualità musicale e l’insistenza su un audio in presa diretta, salvo alcuni passaggi nonsense di rottura sonori, scelte autentiche di autorialità. Un dei due brani della colonna sonora, Passacaglia della vita di Stefano Landi (la stessa poi recuperata dai D’Innocenzo per Favolacce), riassume in poche strofe e sembra quasi il filo conduttore della storia. Bisogna morire. E’ un sogno la vita. Che par si gradita, è breve il gioire, Bisogna morire

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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