Deepfake, doppelganger e omologazione del dissacrante

Il proliferare di un certo tipo di contenuti è forse il simbolo della progressiva uniformazione della libertà, in una social-terra di nessuno vittima della normalizzazione di ciò che è profanatorio?

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C’era una volta il deepfake. Oscuro manufatto cibernetico programmato da mastri hacker per la disinformazione di massa. C’era una volta e forse ci sarà ancora. Perché verranno le fake news e avranno i loro occhi. Nuovamente occhi e voce di Obama magari; Donald Trump, Vladimir Putin o Mark Zuckerberg. Verranno, come voci dall’al di qua, per demolire governi e innescare conflitti, per contraffare stampa e informazione tutta, per inquinare la percezione di un domani già impercettibile.

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Verranno davvero dicono in molti, a disinformare un pubblico disinformato di suo – assuefatto al nulla, all’esasperazione nonsense. Proliferante nel caos dell’epoca della sconfinata libertà d’azione e profanatore seriale di una social-terra di nessuno, dove persino dissacrare è però ormai atto di allineamento al Sistema.

Largo dunque al (dis)ordine, alla manipolazione più sfrenata e goliardica, al post-divismo memetico e a ogni sua possibile declinazione o rilettura in rete. A cominciare dall’icona Gerry Scotti, analizzata un paio di mesi or sono; padre indiscusso del web e volto plasmabile e reinseribile a piacimento all’interno dell’irriverente circuito. Evoluzione ultra istinto del Paul Matthews ideato da Dream Scenario, fuoriuscito dall’impero del subconscio per invadere in grande stile la realtà digitale condivisa – sempre ammesso che tra i due mondi esista ancora una vera linea di demarcazione.

L’uomo di spettacolo, d’altro canto, è ormai esso stesso lo spettacolo, azzarderebbe probabilmente un Ephraim Lessig del nuovo millennio. Ed è a partire da questa semplice considerazione, immersi come siamo nella “voice era” del contemporaneo, che ormai da qualche tempo osserviamo affascinati una serie di altri trend autoimpostisi in bacheca. Trend con o senza volto, talvolta celati dietro a un microfono, spesso eticamente lontani dall’ilarità nazional-popolare di Gerry e politicamente scorretti. Vediamone qualcuno.

Nel bel mezzo dello scrolling ossessivo con cui si è soliti approcciare le sezioni reel/shorts delle nostre app – buchi neri di perdizione o agognato riposo intellettuale – capita ad esempio di imbattersi, più o meno saltuariamente, in vere e proprie alterazioni di telecronache calcistiche di Pierluigi Pardo. Frangenti cioè di partite reali che, appositamente rimontate attraverso il campionamento artificiale della voce del cronista, producono commenti audio all’insegna di volgarità e blasfemie varie. Il tutto solitamente contornato dall’esasperazione – anch’essa artificiale – del collega/seconda voce Lele Adani (fake Lele) e da immancabili scritte in sovrimpressione chiamate a “chiarire” il contenuto del meme “Pierluigi Pardo impazzisce al gol di Gervinho” o “Pierluigi Pardo umilia Lele Adani in una telecronaca”).

Spostando lo sguardo sul panorama Instagram, grandi consensi è riuscita invece a ottenere la community di Photoshoppare. Pagina di editing che nell’ultimo periodo si è segnalata per un indiscriminato bersagliamento di celebrità. Da Papa Francesco che “dice che non gliene frega un cazz* di Sanremo in un’intervista da Fazio” ad Amadeus che “insulta la canzone di Annalisa durante il concertone di Capodanno perché lei stava cantando oltre il tempo previsto”. Fino alle rivelazioni shock di Matteo Salvini che “rivela di essere FLEXIMAN, colui che distrugge gli autovelox, in un’intervista a TGcom24!”.

Il medesimo format, sempre in ambito post-divistico, si riscontra d’altronde anche nei cosiddetti Youtube Poop: estratti di video smontati e rimontati ad hoc per divertire lo spettatore con meccanismi ormai collaudati. Lo dimostrano ad esempio i video del Pooper conosciuto sul web con il nickname “RanaBastarda”, diventato celebre per le collection “Sanremo, il Festival Della Blasfemia Italiana” e “Carlo Conti Perseguita i Concorrenti Bassi”, nate e cresciute sul portale video e poi, come di consueto, frammentate e rilanciate in pillola su qualsiasi altro spazio di condivisione social.

Quel che sorprende, osservando il rapido moltiplicarsi di questo genere di contenuti, non sono però le espressioni ingiuriose in quanto tali, entrate oramai a fare parte dell’uso linguistico comune; né, a ben vedere, l’associazione tra scurrilità e “linguaggio istituzionale”, per quanto indiscutibilmente caricaturale e spassosa. A colpire è piuttosto la strana, ma pacifica convivenza delle molteplici entità-vip a cavallo tra realtà e meme, varianti l’una dell’altra in universi paralleli e reciprocamente indifferenti all’esistenza della controparte. Condizione che, non potendo configurare un’aderenza simile a quella abbracciata volontariamente da Gerry Scotti, genera insomma dimensioni perfettamente autonome e autosufficienti. Segno abbastanza evidente di uno dei volti dell’oggi.

Se infatti vent’anni fa, fissando il black mirror della propria postazione o dispositivo, Pardo & Co. avrebbero probabilmente osservato con orrore il riflesso del loro personale doppelganger, preoccupati dalla possibilità che i rispettivi Goblin blasfemi prendessero possesso della loro persona, oltraggiandone la pubblica immagine e invadendo con spietatezza le nostre intonse bacheche di moralità, oggi questa possibilità è ben lontana dal concretizzarsi. Proprio in considerazione del fatto che, una volta inserito nel vortice dell’arbitrio sregolato, ciò che un tempo consideravamo tabù tende inevitabilmente a esaurire la propria carica trasgressiva.

Ad aggiungere un ulteriore fondamentale tassello alla questione è stata poi la gag, risalente ad alcuni giorni fa, che ha coinvolto il noto streamer Dario Moccia – forse una delle incarnazioni più efficaci di una poetica internettiana che, tra freebooting e riassemblaggi, fa del continuo “riposizionamento” il proprio credo. A fronte infatti del riutilizzo (a fini pubblicitari) da parte della pagina Instagram di Ryanair di uno dei soliti jingle inventati e canticchiati dal twitcher nel corso di una delle sue live (nello specifico una sorta di sgangherata cover/parafrasi del brano Tuta Gold di Mahmood) Moccia, venuto a conoscenza della cosa, ha reagito con un divertito “Raga ma mi dovete dare i soldi per sta roba oh”, salvo poi passare oltre e proseguire tranquillamente la diretta.


La leggerezza con cui lo streamer ha liquidato l’altro-Dario – da lui stesso creato, ma da altri ricontestualizzato e ridefinito – rappresenta un elemento di particolare importanza, dal momento che ci permette di osservare il preciso istante in cui si compie il processo di inevitabile resa da parte del personaggio reale nei confronti della sua versione meme, senza alcuna possibilità di “reverse”. L’atteggiamento di Moccia – anche se in termini più canzonatori che dissacranti –  simboleggia dunque il nostro capitolare di fronte alle inesauribili possibilità di ricomposizione audiovisiva del contemporaneo. Che tuttavia, proprio perché inserite all’interno di un meccanismo ormai collaudato, hanno ormai abbandonato la dimensione di sorpresa per abbracciare invece l’abitudine.

E torniamo dunque a quanto raccontavamo in incipit. Perché pur in un contesto di effettiva anarchia digitale, all’interno del quale i paventati rischi di terrorismo politico e informazionale appaiono quantomeno distanti – dal momento che, semmai, ciò di cui siamo testimoni è spesso un inverso collasso del reale nella dimensione memetica (la pagina “Meme già pronti” ne è un esempio calzante) – Evil-Pardo e compagni potrebbero infatti essere il volto di una progressiva quanto paradossale omologazione della libertà. Cioè di un processo in cui l’iterata dissacrazione del quotidiano corre il pericolo di trasfigurarsi in una normalizzazione del dissacrante.

È davvero possibile che una scheggia impazzita rimanga impantanata nella palude social? Forse è solo l’ennesima contraddizione nonsense a cui non mancheremo di abituarci.

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