Dogman, di Luc Besson

Tratta da un fatto di cronaca, è un’opera meravigliosa, terribilmente toccante, capace di mostrare la maschera e il suo riflesso, anche per pochi attimi, di propagare il richiamo al dolore. Concorso

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Tratta da un fatto di cronaca, Dogman è un’opera meravigliosa, terribilmente toccante, capace di mostrare la maschera e il suo riflesso, anche per pochi attimi, di propagare il richiamo al dolore, di riconoscere l’andatura bieca, pure se la schiena si rompe ma non si spezza. È distrutta dai drammi giovanili, dalle violenze subite, devastata da esperienze inenarrabili. Luc Besson si fa prendere da questa straordinaria storia di un bambino rinchiuso in una gabbia dal padre e abbandonato dalla debole madre. Su quella storia, che segnerà la vita del protagonista, il regista si chiede che tipo di vita potrà avere questo ragazzo? Che cosa potrà mai diventare? La si può appunto soltanto immaginare…Tod Browning degli anni ’30, ma probabilmente ancora di più Kaspar Hauser, rinchiusi nella gabbia con cani di razze diverse, addestrati per i combattimenti. I cani saranno i suoi bambini, le sue guardie del corpo, la sua salvezza. D’altronde la frase di Alphonse de Lamartine sui titoli di testa è emblematica: “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”. I bambini (altro riflesso…) cercano rapporti saldi, si muovono sempre in quella direzione, cercano ancora di più rapporti veri e il riflesso di Dog diventa “God”.

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Anche la voce dell’adulto Douglas (strepitoso l’interprete scozzese, nonché anche musicista, Caleb Landry Jones) che ad un certo punto si sovrappone al grido di disperazione del bambino Douglas, come la voce di Edith Piaf, Marilyn Monroe e Marlene Dietrich sul labiale del protagonista/artista, in un locale Drag Queen, rimanda alle radici dell’essere umano pur se necessariamente nascoste sottoterra. Si perché Douglas, catturato dalla polizia, racconta la sua storia alla psichiatra e l’opera salta temporalmente per tessere il quadro, per mettere insieme un corpo bionico, meccanico, horror, thriller, trasversalmente segnato dai generi. L’incipit ci immerge da subito nell’America serial e poi inaspettatamente, perché stavolta non necessariamente usuale nel cinema di Besson, si intraprende un cammino in cui la verità è sempre all’altezza della finzione, c’è un testa a testa costante, anche con le performance dei cani ai limiti della verosimiglianza. Douglas, vendicatore, benefattore, tendenzialmente disadattato, nella sua esplorazione mistica, sembra condannato a essere il martire delle origini, il genio tragico, l’artista che paga con la vita il prezzo dell’invenzione delle forme narrative future. Joker biologico (peraltro Douglas ha una laurea in biologia) in chiave ancora meno nevrotica, posseduto da quelle coscienze febbrili e tormentate del contemporaneo.

Ma cosa in fondo riscopre Besson? La pulsazione urbana che ci guida e ci rispecchia. Non antropomorfizza il non umano, ma difende la sua diversità, nella caratterizzazione della modernità. Quella pulsazione l’avverti dai sotterranei in cui si nasconde Douglas, in cui ha costruito una trappola perfetta per gli invasori del mondo soprastante. Dogman è una folata dark, un torrente insalubre. Forse è per questo che la sua sagoma su una sedia a rotelle si aggira per la metropoli, per le strade di celebri serial-killer, della cronaca nefasta. Anche la fugacità di un amore si mostra, per colei che, in età adolescenziale, gli ha insegnato ad amare il teatro, ad amare il travestimento, ad amare l’esibizione. Cattura quella fugacità, il fascino degli sguardi, perché Besson ha fatto un altro prepotente passo verso nuovi incontri, cattura quella seduzione e quella sensualità che la città offre a ogni angolo. Luc Besson però è anche stavolta un fenomenale sabotatore, non è il supereroe Douglas che cammina con noi e per noi, lo può fare solo per brevi spostamenti e può restare in piedi pochi istanti, il tempo di chiudere il sipario, prima di ripiombare a terra. La vendetta è servita verso se stesso, i suoi numerosi detrattori, in omaggio al suo cinema e i suoi personaggi preferiti e soprattutto a favore di quella costante attrazione per la maschera del disertore autoriale e l’inarrestabile, ancora una volta e per sempre, riflesso malinconico errante dei suoi ineguagliabili, ai più, orizzonti filosofico/scientifici.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
2.2 (10 voti)
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