"Duma", di Carroll Ballard

Non importa se quello di Ballard è un film non del tutto riuscito, ci importa pensare, credere, che ci abbia lasciato liberi di penetrare nelle pieghe dell'esistenza, ricordandoci di dover abitare la vita con fedeltà e gratitudine e non come spettatori trasognati.

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La vita e il cinema che si sottraggono allo sguardo nel tempo. Presenze di un vissuto, trascinate via dal tempo del nostro essere al mondo. Un tempo riempito dall'assenza e dalla perdita di corpi, sguardi, gesti, segni, parole, ma anche da paure, desideri, amori, dolori, frammenti che solcano l'invisibile intimità del cuore. Istanti impressi nella memoria, tracce lontane, trascorse, percorse, talvolta semplicemente sfiorate, nel loro equoreo fluire, fino a sciogliersi nell'acqua delle immagini, come ci ha insegnato Jean Renoir in quell'indimenticabile affresco dipinto sulle rive del Gance. Squarci aperti nell'iride dell'animo, disseminate significazioni del nostro esistere nel tempo; in quel tempo che scava dentro di noi, esposti ad esso, il suo reliquiario. Forse è ciò che si sa di non poter più vedere, a permettere la concrezione del nostro sguardo interiore, ma anche a spingerci a vedere le cose con occhi diversi, a dare consistenza alle vibrazioni dei nostri sentimenti. Duma, il quinto lungometraggio di Carroll Ballard, in più di trent'anni di carriera iniziata come documentarista, lascia trasparire il desiderio di voler fissare tutto ciò che procura emozione, con la consapevolezza che lasciarsi attraversare dal tempo ha in sé il senso di una sfinente finitezza (la morte del padre del piccolo Xan, il suo lungo viaggio nei luoghi ostili dell'Africa per separarsi dal suo amico ghepardo e lasciar proseguire il corso della natura). Così l'esistenza implica un tessuto emotivo, che si vuole ritornare a guardare, e quindi (ri)vissuto, non a caso Duma richiama alla mente tutto il cinema precedente di Ballard: l'amicizia tra il giovane Alex e il magnifico stallone nero di Black Stallion; il viaggio di Amy e di suo padre per aiutare alcune oche selvatiche a migrare verso sud ne L'incredibile volo; ma anche i ghiacci del Canada del Nord di Mai gridare al lupo, cui sembra sovrapporsi la sabbia del deserto africano. Anche se Ballard non riesce fino in fondo ad immergere il paesaggio in una tensione tattile e non sempre a comunicarci l'instabilità e l'imprevedibilità dei corpi, umani e animali, o ad incrociare quelle erranze dei corpi e degli animi che vanno al di là dell'ancestrale perdita di innocenza e della consapevolezza di dover crescere, filma le sensazioni provate davanti ad un paesaggio o alle vicende dei suoi personaggi, in modo piano e senza eccessiva enfasi. Non importa allora se questo è un film non del tutto riuscito, ci importa pensare, credere, che ci abbia lasciato liberi di penetrare nelle pieghe dell'esistenza, ricordandoci di dover abitare la vita con fedeltà e gratitudine e non come spettatori trasognati.

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Titolo originale: id.
Regia: Carroll Ballard
Interpreti: Alex Michaeletos, Campbell Scott, Mary Makhatho, Nthabiseng Kenoshi, Hope Davis, Jennifer Steyn
Distribuzione: Warner Bros
Durata: 90'
Origine: USA, 2005

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