Ernest Cole, Lost and Found, di Raoul Peck

Peck ripercorre le vicende del primo fotografo sudafricano a raccontare l’apartheid. Un altro film lucidissimo sulle discriminazioni razziali e le ingiustizie sociali. CANNES 77. Séances Spéciales

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Nel film c’è un senso condensabile in “assicurati di osservare davvero quello che vedi” e a tal proposito ho cercato di lavorare su più livelli. Vedrete che in molte delle immagini del film il soggetto guarda in camera. Si tratta di guardarsi a vicenda, allo stesso modo in cui Baldwin dice: “Non eravate voi a guardarci a vista, eravamo noi a dovervi riconoscere”. Volevo che imparassimo di nuovo a guardarci.

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È quanto ci disse Raoul Peck in una conversazione ai tempi di I’m Not Your Negro, il film dedicato allo scrittore e attivista James Baldwin. Ed è una dichiarazione di intenti perfetta anche per il suo nuovo documentario su Ernest Cole, fotografo sudafricano black, il primo capace di catturare e restituire la realtà disumana dell’apartheid. Anche nelle sue foto, molti dei soggetti ripresi guardano dritti nell’obiettivo. Esattamente come fa Cole nelle immagini che lo ritraggono nel corso degli anni. Tutti volti che ci riguardano, ma che soprattutto chiedono di essere riconosciuti. Mentre Peck ci esorta a osservare davvero quello che vediamo. Come quando prende ad analizzare, dettaglio per dettaglio, l’immagine di un ragazzo di colore fermato da un poliziotto, in mezzo alla folla. Erano gli anni in cui, in Sud Africa, la popolazione black poteva circolare nei quartieri bianchi solo con uno specifico lasciapassare, che poteva essere ritirato in ogni momento, a discrezione delle forze dell’ordine. Ecco, ricostruendo le espressioni e le traiettorie degli sguardi di quella foto, emerge con evidenza una realtà di paura e di indifferenza. Frutto di quella “politica di buon vicinato”, come la definì il primo ministro Hendrik Frensch Verwoerd che portò a compimento l’impianto e la legislazione dell’apartheid, prima di essere assassinato nel 1966. In verità, una politica che rispondeva a una pura ideologia razzista e a un intento di effettiva segregazione.

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Ernest Cole era nato nel 1940 nei pressi di Pretoria. Abbandonò la scuola a seguito dell’emanazione del Bantu Education Act, che stabiliva un rigido regime di separazione razziale del sistema scolastico, annullando di fatto la possibilità per la popolazione di colore di ottenere un’istruzione adeguata. Cole decise di continuare gli studi per corrispondenza, coltivando la passione per la fotografia. Cominciò a lavorare per il fotografo Jürgen Schadeberg, mentre raccoglieva una gran quantità di immagini per le strade di Pretoria. Quando riuscì a ottenere un passaporto e a partire per gli Stati Uniti, portò con sé clandestinamente i negativi. E a New York, nel 1967, pubblicò le sue foto in un libro intitolato House of Bondage, che gli diede una risonanza internazionale e, ovviamente, fu proibito in Sud Africa. Sarebbe rimasto il suo unico lavoro.

Nel ripercorre la storia di Cole, fino alla crisi profonda che lo portò ad abbandonare la fotografia e a diventare un senza tetto, Raoul Peck rilancia il discorso politico del proprio cinema. Come sempre implacabile nel raccontare le vicende e svelare le strutture e le sovrastrutture delle discriminazioni razziali e delle disuguaglianze sociali. E il discorso si innesta perfettamente sulle riflessioni di Cole, che, pur non avendo la raffinatezza intellettuale di Baldwin, era pienamente consapevole delle dinamiche e delle conseguenze dell’apartheid. Come scrive in House of Bondage, “Trecento anni di supremazia bianca in Sud Africa ci hanno messo in schiavitù, ci hanno privato della nostra dignità, ci hanno privato della nostra autostima e ci hanno circondato di odio”. Proprio per questo, Raoul Peck decide di eleggere Cole, scomparso per un cancro nel 1990, a cosceneggiatore a pieno titolo del film. E affidare alla sua voice over, interpretata da Lakeith Stanfield, il compito di accompagnare le immagini, quasi interamente basate sulle sue foto. Non solo quelle pubblicate in House of Bondage. Ma anche quelle ricavate dagli oltre 60.000 negativi recuperati nel 2017 da alcune misteriose cassette di sicurezza conservate in Svezia (dove Cole compì ripetuti viaggi negli anni ’70). Sono queste immagini a costituire gran parte del fondo del The Ernest Cole Family Trust, impegnato da anni in una causa legale per recuperare altri 504 negativi di inestimabile valore. E si tratta, in stragrande maggioranza, di foto scattate in America, a New York o negli stati del Sud, dove Cole stava portando avanti un nuovo progetto sulle condizioni di vita della popolazione di colore. È lì che emerge un’altra visione della discriminazione e della segregazione razziale. Ma, ancor più, emerge la pena dell’esilio di un uomo condannato a non tornare più a casa. Che, disperatamente, vuole imparare di nuovo a guardare e a essere guardato. Il silenzio finale di Cole è una resa, lontanissima dalla furiosa energia di Raoul Peck. Ma la rivoluzione dello sguardo significa anche trasformare la rabbia e l’urgenza della lotta in una necessaria, umana empatia.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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