FESTIVAL DI ROMA 2013 – Tir a segno
Per noi che siamo fuori dalla grazia della Critica, che ci dibattiamo nei nostri dubbi, tra entusiasmi e delusioni, è stata un'edizione memorabile. È evidente che la direzione Müller ha riportato il festival al centro della riflessione più urgente, sulle difficoltà del presente e il fascino delle prospettive, sulle trasformazioni in atto, sulle resistenze passive e attive
Chissà perché, in questi anni, il Festival di Roma è diventato, più di ogni altra manifestazione, il luogo di un oscuro conflitto istituzionale e mediatico, il terreno di scontro di fazioni "politiche", lobby economiche e "culturali"… Certo, un macroevento da 7 milioni di euro, più o meno, fa gola, è destinato a suscitare gli appetiti, le grevi invidie, oltre che le più che legittime preoccupazioni di molti. Ma occorrerebbero schiere di antropologi, psicologi, maghi, per comprendere l'acrimonia tutta italiana con cui si alimentano le polemiche, si orchestrano i complotti e si meditano vendette.
Resta il fatto che Roma è la punta dell'iceberg di una guerra di posizione tutt'altro che disinteressata, che coinvolge gli altri grandi festival come Venezia e Torino, ma più in generale tutto l'universo torbido e dispendioso degli eventi culturali (e non solo). E uno dei meriti più perversi di Müller, come già abbiamo detto, è di aver fatto venire a galla tutte le contraddizioni e i miasmi malsani del sistema cinema italiano, con tutto ciò che c'è intorno. Per cui le polemiche fanno parte del gioco. E arrivano puntuali, confondendo, più o meno ingenuamente, il piano dell'organizzazione con quello della direzione artistica, i metodi con il merito, la contesa politica ed economica con la qualità della proposta. Come mostrano le proteste accorate dei soliti illuminati contro la vittoria di Tir di Alberto Fasulo. Eppure i piani restano distinti.
Il festival di Roma continua a mostrare gravi punti deboli organizzativi (uno scherzo, comunque, rispetto alle assurdità abnormi di Venezia). Punti deboli che sembrano incarnarsi innanzitutto nel luogo deputato, per scelta politica, all'evento, l'Auditorium. Chiunque abbia frequentato il festival in questi giorni di grande afflusso (altro merito di Müller?), si è dovuto confrontare con le inadeguatezze logistiche della struttura e le difficoltà del personale addetto: caotica gestione delle file, confusione agli ingressi e alle uscite, ritardi considerevoli… Questa specie di UFO sbarcato nel centro della città, ma ben al di fuori del suo cuore vivo, è il vero problema, continuano a ripetere in molti. Ma è un problema, va detto, che porta con sé tutta un'altra serie di questioni, che riguardano la città nel suo complesso, gli spazi urbani, il flusso del traffico, la difficoltà degli spostamenti, l'organizzazione dei mezzi pubblici (semplicemente ridicola), i parcheggi, le vie di accesso e di deflusso. Tutte questioni che vanno ben aldilà di un singolo evento e che coinvolgono scelte politiche ed economiche, strategie di pianificazione urbanistica e progettualità architettonica. In altre parole, bisogna chiedere risposte a chi, oggi, pensa e progetta la città. Ed è evidente, almeno per me, che un festival che ambisca a essere metropolitano, debba condurre innanzitutto una riflessione trasversale sulla metropoli, sui problemi e le strategie…
Ma volendo stare ai costi (che fanno la differenza), a parità di disagi reali o presunti, siamo davvero sicuri che organizzare un grande evento tra Auditorium e MAXXI sia più conveniente di un festival che si sviluppi tra le sale (cinematografiche!!!) del centro, o che magari "esploda" nei vari luoghi della città in una rete diffusa? E ovviamente qui entrano in gioco altre questione legate alle istituzioni, ai rapporti tra Fondazione Cinema per Roma, Fondazione Musica per Roma e Museo MAXXI…
Resta il fatto che quella logistica è la grande sfida dei festival europei, considerata la situazione disastrosa di Venezia e il rischio d'implosione di Cannes, per altro molto attenta alle esigenze dei fruitori. In questo senso, Torino rappresenta in Italia un esempio virtuoso (fatte le debite proporzioni), Berlino un modello insuperabile.
Stabilito il nodo, eccoci al senso e al merito delle proposte, ai film. E per noi che siamo fuori dalla grazia della Critica, che ci dibattiamo nei nostri dubbi, tra entusiasmi e delusioni, è stata un'edizione memorabile. È evidente che, tra mille ostacoli, la direzione Müller ha riportato il festival al centro della riflessione più urgente, sulle difficoltà del presente e il fascino delle prospettive, sulle trasformazioni in atto, sulle resistenze passive e attive. Un discorso che, al tempo stesso, prosegue e si smarca dall'impasse degli ultimi anni, quelli della fine del mondo e del cinema, della crisi del mainstream e dei modelli formali e narrativi più consolidati, del riflusso reazionario perseguito da gran parte del sistema hollywoodiano, dell'intelligenza artificiale e dispotica del cinema d'autore trionfante (da Haneke e Kechiche).
La vittoria di Tir è il secondo segnale decisivo lanciato al mondo del cinema, dopo il trionfo di Sacro GRA. Perché si tratta di due film che, ponendosi ai margini del sistema e al confine tra i grandi modelli, danno già per assorbita la sostanza ibrida e mutante della contemporaneità, la virtualità del reale e la concretezza della finzione, quella che Spike Jonze si affanna a raccontare invano (e in questo senso appare perfettamente conseguente anche il premio all'assenza della Johansson). I film di Fasulo e Rosi sottolineano entrambi l'urgenza di un azzeramento, la necessità del recupero di un'essenzialità di sguardo che sappia coniugare la consapevolezza del linguaggio con l'intensità umana della materia. E non è un caso che a premiarli siano stati due registi come Bertolucci e Gray, diversi, eppur accomunati dalla ricerca ossessiva di un rigore personale (quanti altri film, oggi, hanno la stessa purezza cinematografica devastante di Io e te e The Immigrant, la stessa capacità di aprire con la semplice forza delle immagini mondi di paura, dolore, solitudine e speranza?).
Ecco, la domanda andrebbe ricercata nel frammento decisivo di Schrader in Venezia 70. Cosa fare in un'epoca di trasformazione permanente? E La prospettiva aperta dal festival di Roma prova a indicare una risposta. Con una lucida coerenza, che appare chiara soprattutto nel percorso sorprendente della linea CinemaXXI, purtroppo snobbato dalla Critica e abbandonata all'attenzione dei soliti incoscienti, per lo più giovani (questione di pazienza e resistenza). Dall'apparente rinuncia all'antropocentrismo di Luca Trevisani alla ricerca del metodo di Marco Martins e Michelangelo Pistoletto, dalla disintegrazione liberissima di Swaroop fino alla splendida consapevolezza politica e rivoluzionaria di Tariq Teguia, la via è quella di accettare l'inevitabilità della trasformazione e rimettere in discussione i limiti stessi del cinema, nelle forme prima ancora che nei contenuti. Agendo dai lati, da una prospettiva immediatamente "oltre", o dal centro, piegando i grandi apparati produttivi, il sistema industriale, all'invenzione di un altro linguaggio, di un'altra prospettiva. Ed ecco che Tir si situa all'estremo opposto, eppur sulla stessa linea, dei giganteschi film di German e Tsui Hark. Al centro esatto della strada incontriamo Demme, sempre capace di sperimentare la libertà nella griglia del testo, tra le strette maglie del set. La vita che attraversa e smargina il cinema. Con i suoi punti morti, le sue eccezioni, le soste e le fughe. Il futuro è questo. Lo è sempre stato.