Fino all’ultimo respiro, di Jean-Luc Godard
Il primo lungometraggio di Godard, con la sua anarchica e radicale ribellione, ha sconvolto e ridisegnato l’idea stessa del cinema e la sua fruizione. In sala da oggi in versione restaurata
Salutato già alla sua uscita in sala come un’opera in anarchica e radicale rottura con gli stilemi del cinema classico, tanto da venir eletto come il film manifesto della Nouvelle Vague, il primo lungometraggio di Jean-Luc Godard prende vita rimodellando da un soggetto di Truffaut, ispirato ad un fatto di cronaca, la storia di Michel Poiccard, piccolo criminale che, dopo aver ucciso un poliziotto, raggiunge Parigi in cerca di denaro e nel tentativo di coinvolgere Patricia Franchini, ex-amante di cui è ancora innamorato, nel suo progetto di fuga verso l’Italia, finisce per essere tradito dalla ragazza e consegnato alla morte.
Nella sua apparente linearità narrativa, Fino all’ultimo respiro è un complesso gioco attraverso l’esigenza estremizzata di una rottura formale, che, liberandosi del linguaggio filmico classico, dopo averlo coscientemente introiettato e profondamente amato, diventa nuova modalità espressiva basata sulla frattura, sulla contraddizione, sullo svelamento stesso della finzione, in modo da distogliere violentemente lo sguardo dello spettatore dal suo sonno acritico e passivo. Godard si nutre dell’universo del cinema noir dal quale mutua l’intreccio, sul quale ricalca il personaggio di Poiccard/Kovàcs, dal quale prende in prestito Jean Seberg come volto scelto da Preminger, al quale per tutta la durata del film continua a riferirsi in un fitto susseguirsi di citazioni più o meno esplicite, mettendo in scena, oltre il sincero omaggio, la volontà di liberarsi di ogni costrizione narrativa o convenzionalismo stilistico.
L’orchestrazione di Fino all’ultimo respiro intreccia la frammentarietà del discorso e della visione, continuamente interrotta da salti e negata nel suo fluire da falsi raccordi, con i lunghi piani sequenza che non fanno progredire la storia ma diventano libere ed assurde peregrinazioni senza meta compiute attraverso la “parola”, le parole stesse esauriscono e negano il loro significato nell’istante in cui vengono pronunciate, la narrazione e la rappresentazione corrono parallele senza mai andare a coincidere in una decostruzione dell’immagine in netto contrasto con la continuità dell’elemento sonoro e dove la continuità della visione viene contraddetta dalla frammentarietà del dialogo, la macchina da presa diventa strumento liberato capace di seguire il disordinato fluire del pensiero e dei corpi, l’essenza dei personaggi, l’inutile arbitrarietà dei loro gesti diventano lo svelamento della loro falsa esistenza, i volti sono solo i riflessi di un’identità mai posseduta, anche la rappresentazione della carnalità viene sottratta alla visione e totalmente affidata alla verbalizzazione.
Il corpo nullo e puramente gestuale di Jean-Paul Belmondo, maschera dichiarata e senza vita del doppio cinematografico di Humprey Bogart, che continuamente si riflette in uno specchio cercando la prova della sua esistenza, ratificata unicamente ed apertamente dalla presenza dello spettatore, diventa il veicolo auto-rappresentativo di Godard, in quanto libero e contraddittorio fluire di un giudizio che, nella sua irriducibilità al conformismo sociale, costantemente e spontaneamente si posa e si distingue da tutto ciò che lo circonda, in quanto visione della vita che per essere tale insegue l’amore, finendo per essere cancellata dall’impossibilità dell’amore stesso.
Orso d’argento come miglior regista al 10° Festival di Berlino
Titolo originale: À bout de souffle
Regia: Jean-Luc Godard
Interpreti: Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Jean-Pierre Melville, Henri-Jacquest Huet, Roger Hanin, Claude Mansard, Liliane Dreyfus
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 89′
Origine: Francia, 1960