Giornate del Cinema Muto di Pordenone – Intervista al direttore Jay Weissberg

Durante gli ultimi giorni del festival abbiamo potuto intervistare il direttore artistico della manifestazione che ci ha parlato del programma selezionato e della grande forza del cinema muto

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Si è appena conclusa la 42° edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. La principale manifestazione internazionale dedicata alla conservazione, alla diffusione e allo studio dei primi trent’anni di cinema, ha portato quest’anno un programma ricco e variegato, in grado di proporre un gioco di rimandi tra temi, opere e filoni cinematografici.

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Gli spettatori hanno potuto ammirare i restauri di alcune delle più importanti opere del cinema muto, tra cui La Divine Croisière, il capolavoro di Julien Duvivier, The Pilgrim di Charlie Chaplin, Sherlock Jr., di Buster Keaton e Merry-Go-Round, opera iniziata da Erich von Stroheim e terminata da Rupert Julian. Durante gli ultimi giorni del festival abbiamo potuto intervistare il direttore artistico della manifestazione Jay Weissberg.

Ora che siamo arrivati alla conclusione della manifestazione, ci può dare un suo commento sull’accoglienza che le ha riservato pubblico sia in termini numerici sia per quanto riguarda la tipologia di pubblico. Siete soddisfatti rispetto agli obiettivi che vi eravate prefissati?

Si sono molto soddisfatto. Abbiamo ritrovato i visi delle persone che non abbiamo potuto vedere per quasi tre anni, dall’inizio della pandemia. Persone che provengono da tutte le parti del mondo: Europa, Stati Uniti, Australia. Quest’anno, in particolare, ho notato che ci sono più giovani, ed è una cosa positiva perché, sai, di solito associamo il cinema muto a qualcosa di vecchio, a gente con i capelli grigi… Negli ultimi anni abbiamo lavorato molto per cambiare l’idea che il cinema muto sia qualcosa di arcaico. Già solo per questo sono molto felice ma lo sono anche per le reazioni che il nostro pubblico ha avuto nei confronti del programma che abbiamo presentato quest’anno.

 

Proprio riguardo al programma, mi sembra che le Giornate del Cinema Muto offrano un programma estremamente diversificato, testimoniando l’ampia e assoluta fertilità artistica del periodo del cinema muto. Passiamo da Julien Duvivier a Charlie Chaplin, Buster Keaton fino ad arrivare ai primi film domestici e ai documentari sportivi. Ci può spiegare quali sono i criteri con cui questi film vengono scelti?

Cerchiamo sempre di trovare opere che ci mostrino tutto il panorama artistico-produttivo del periodo. Quando si studia cinema all’Università, gli insegnanti mostrano solo quelli che sono i capolavori di ogni epoca storica. Questa dinamica ovviamente fa parte del cinema ma non è tutto il cinema. E qui entrano in gioco i festival come il nostro che hanno il compito di mostrare tutti i “frammenti mancanti”. Per questo abbiamo proiettato il documentario della tournée in Argentina e Uruguay della squadra di calcio del Genoa nel 1923, dopo la vittoria dell’ottavo scudetto, ma anche cinegiornali e tanto altro. Credo che l’unico modo in cui si possa capire non solo il cinema ma anche il periodo in cui questo viene creato, sia vivere una sensazione di immersione totale, arrivando a perdere anche i riferimenti, dimenticandosi da che film provenga una certa scena piuttosto che un’altra. Immergersi totalmente nel cinema e nell’epoca.

 

Ci può parlare dell’affascinante percorso che queste opere compiono dalla loro scoperta/riscoperta fino alla proiezione in sala?

Il discorso cambia se stiamo parlando di un restauro vero e proprio o di un processo di preservazione/digitalizzazione. Perché sono due cose molto diverse tra loro. Per esempio, il documentario The Wonders of the Amazon che abbiamo ritrovato lo scorso febbraio proviene da un controtipo negativo in bianco e nero ottenuto nel 1981 da un nitrato imbibito, ora completamente degradato. Quindi non c’era bisogno di lavorarci molto. Invece, la copia che abbiamo del film iniziato da Erich von Stroheim e terminato da Rupert Julian, Merry-Go-Round, è il frutto di un complesso restauro che attinge da quattro, forse cinque copie di diversi formati provenienti da vari archivi. Questo è un lavoro, un restauro vero e proprio, per cui servono a volte anche due anni e tanti soldi. E qui si apre un altro capitolo: la maggior parte degli archivi ha un budget stanziato dal governo, ma sappiamo tutti quanto il sostegno alla cultura sia molto limitato. Per gli archivi pubblici è molto complicato ricevere fondi statali, negli Usa, invece, ci sono figure come Martin Scorsese che finanziano in prima persona il restauro di alcune pellicole.

 

E ci sono anche delle storie molto particolari dietro al ritrovamento di alcune vostre opere?

Giusto. Ad esempio, tre film che abbiamo proiettato in questa edizione sono stati recuperati a Praga, dopo che per anni sono stati considerati perduti. Statisticamente è successo aò più del 70% delle opere del periodo muto. Nonostante questa cifra shock, ci sono sempre delle nuove scoperte, dei ritrovamenti negli archivi. Questo perché, e qui ritorniamo alla questione economica di prima, hanno una carenza strutturale di personale. Di conseguenza ci sono troppi film per troppi pochi impiegati e certe opere rimangono per anni e anni nei magazzini di questi luoghi, senza mai essere analizzati. Ci sono una montagna di film non identificati. L’anno scorso abbiamo proiettato un vecchio film di Tod Browning, intitolato The Unknown ma che potrebbe benissimo aver avuto tutt’altro titolo mentre quello che noi abbiamo trovato sulla pizza potrebbe essere semplicemente un Titolo sconosciuto. Il problema alla base è che c’è poco personale e non c’è tempo.

 

Immagino che in molti le chiedano quale sia l’importanza del cinema muto nella contemporaneità. Le chiedo, invece, se ritiene di cardinale importanza l’essenzialità delle immagini nel cinema muto, che lasciano un fondamentale spazio all’interpretazione dello spettatore, attraverso il non detto. È questa la grande forza del cinema muto?

Domanda impegnativa… ho pensato per tanti anni a quale sia per me il vero fascino del cinema muto. Un amore che è nato quando avevo quindici anni e ho visto Napoleon di Abel Gance. Non l’ho più rivisto per circa trent’anni. E quando sono riuscito a rivederlo a Londra… beh mi ricordavo tutto, dalle singole sequenze ad ogni movimento di macchina. Questa per me è la grande forza del cinema muto. Un cinema che, a distanza di trent’anni, ti fa ricordare i movimenti delle singole immagini. Vorrà dire qualcosa? Come critico giro sempre per festival e vedo tantissimi film e devo dire che tutto il cinema muto che ho visto mi aiuta tantissimo nell’interpretare e analizzare al meglio anche i film sonori che vedo oggi. È una forza. E poi il cinema muto ci lascia quello spazio di interpretazione che ci permette un coinvolgimento emozionale maggiore. Nel cinema contemporaneo, purtroppo, questo coinvolgimento non parte più dalle immagini. Spesso è la colonna sonora, a spingere le emozioni prima delle immagini. Invece, bisogna avere fiducia prima nelle immagini, poi arriva il resto.

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