Grand Tour, di Miguel Gomes

Gomes porta a compimento il suo discorso sul cinema come arte della fuga. Un film di spiazzamenti che rimettono in discussione le logiche e le convenzioni del racconto. CANNES 77. Concorso

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Che per Miguel Gomes il cinema fosse un’arte della fuga, già era chiaro dall’inizio de Le mille e una notte. Il regista scappa a gambe levate dal set, lasciando pieno potere alle immagini di muoversi tra i racconti, tra la fascinazione affabulatoria e la libertà dalle trame.

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Con Grand Tour, quest’arte della fuga si salda all’estetica esotica e aurorale di Tabù e giunge a compiuta definizione. Del resto già la storia è “esemplare”. Questa traccia, più o meno strutturata, che risale alla suggestione di un romanzo di William Somerset Maugham, Il gentiluomo in salotto. In particolare ad alcune pagine in cui si racconta di un inglese che, terrorizzato dall’idea del matrimonio, intraprende un lungo viaggio tra le zone più remote dell’Asia per sfuggire alla fidanzata.

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E così eccoci al 1917. Edward, un funzionario britannico in Birmania, riceve un telegramma mente si trova in un caffè di Rangoon. Visibilmente turbato, decide di partire immediatamente per Singapore. Inizia una lunga peregrinazione che dall’Sud-est asiatico lo porta prima in Giappone, a Osaka, poi a Shanghai e infine nell’entroterra cinese. Chi è quell’uomo? È davvero un funzionario o è una spia? E qual è il reale motivo del suo viaggio? A inseguirlo, c’è la sua fidanzata, Molly Singleton, intenzionata a raggiungerlo a ogni costo.

Nella perenne ironia di Miguel Gomes, la vicenda assurge quasi alla dimensione di una parabola, un ammonimento sugli incontri mancati e gli spiazzamenti del destino o del caso. Ma è soprattutto una questione di forme. È su quel piano che mette in atto tutta una serie spiazzamenti, per rimettere in discussione le logiche e le convenzioni del racconto.

A cominciare da quanto si dichiara nelle note di regia di Grand Tour: l’idea di far nascere, al montaggio, un “tempo cinematografico unico”. E così, le scene in cui appaiono Edward e Molly mimano le immagini d’epoca, sulla scia di Tabù, ma vengono costantemente associate a una serie di inserti e di raccordi che hanno un’evidenza documentaristica, da reportage di viaggio. Sono immagini che servono a contestualizzare, offrendo una panoramica dei vari luoghi attraverso cui si dipana il viaggio dei protagonisti: Rangoon, Singapore, Bangkok, Saigon, Osaka, Shanghai. Ma soprattutto valgono a creare un cortocircuito temporale profondo con la messinscena, con il presente che irrompe nella ricostruzione in costume. Ma il gioco delle discrasie non interviene solo sul livello temporale. Perché a fronte dell’immediatezza dell’immagini “reali” e degli scenari naturali rigogliosi, le sequenze recitate denunciano palesemente la loro natura fittizia. I personaggi si muovono su uno sfondo molto spesso sfocato, tra pochi elementi scenografici che richiamano l’artificiosità dei set del cinema muto e rimandano solo per allusione alla dimensione diegetica.

Infatti, nei vari luoghi toccati dai personaggi, assistiamo a degli spettacoli tradizionali, cioè a forme di rappresentazione che si basano su convenzioni rigorosamente codificate, ben lontane da quella tentazione al naturalismo che sarebbe iscritta, secondo alcuni, nel codice genetico del cinema. È in queste parentesi che si svela l’intento di Gomes: il suo Grand Tour piega verso l’astrazione. Che è un modo di prendere distanza. Esattamente come l’ironia. Del resto, cos’è una fuga, se non un mettere distanza dalle cose? Ma tutto ciò è anche un modo per dire le cose senza doverle per forza di cosa inseguire, catturare, mostrare. Ritrovare un’economia e una purezza delle forme, che poi è uno dei segreti più profondi del cinema.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4.33 (3 voti)
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