I fondali invisibili del cinema: incontro con Nino Russo

Dal teatro al cinema, senza soluzione di continuità. Non è facile filmare la zona intermedia che corre tra specifico filmico ed essenza teatrale della rappresentazione. Nino Russo, qui al suo terzo film in più di vent'anni di attività, ci riesce, e anche molto bene. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione di “Fondali notturni”.

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Prima della iniziale domanda di rito, non possiamo non esprimerle lo stupore provato di fronte ad un'opera che non cavalca nessun genere, dichiaratamente fuori del tempo, addirittura demodè per certi versi…

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La mia scommessa con il cinema è sempre stata quella di provocare lo spettatore attraverso un uso assolutamente personale del mezzo filmico. Non mi interessa filmare qualcosa di cui si parla costantemente, non mi piace accarezzare la moda del momento che mi imporrebbe di sottostare a certe condizioni che rifiuto a priori. Non si tratta di modernizzare l'assetto percettivo dello sguardo, ma soltanto di perseguire con onestà e dedizione un'idea di cinema sicuramente non facile, senz'altro non adatta a soddisfare i gusti di chi cerca essenzialmente intrattenimento. Per quanto mi riguarda, si tratta di una scommessa che vinco ogni volta che il mio film fa discutere, pensare, ragionare. Non mi interessa a questo proposito confezionare uno spettacolo che metta d'accordo tutti, ma una rappresentazione assolutamente personale (dunque discutibile) di ciò che vedo intorno.


Sta parlando di uno sguardo asincrono rispetto alla Realtà di oggi…

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Non c'è dubbio. Non si tratta però di voler evadere dai contorni asfittici del Presente, ma soltanto di mostrarlo attraverso una sua sublimazione in una chiave implicita che sta allo spettatore poi rintracciare nelle maglie del film. Il difetto di molti registi e soprattutto di molti critici è quello di cadere costantemente nelle secche anguste del contenutismo a tutti i costi. Sono convinto del fatto che ormai siano state raccontate un po' tutte le storie, e che quindi il margine di originalità in questo non possa che essere molto labile. Credo invece che l'essenza propria dell'arte sia non tanto quella di chiedersi cosa raccontare, ma come raccontarlo. Il "cosa" spesso si trasforma in una sorta di alibi artistico per cui si è legittimati come autori, indipendentemente dal lavoro sulla forma che si é privilegiato.

A questo proposito, ci pare che il suo cinema (e in particolar modo questo suo ultimo film) produca un dispositivo sensoriale (e non di meno intellettuale) dalle potenzialità assolutamente politiche. Non cinema a tesi però, ma cinema-cinema in grado di innescare la riflessione da dettagli apparentemente insignificanti…


Non mi piace privilegiare mai una forma-cinema che giochi le sua carte in modo troppo scoperto. Fondali notturni nasce come incrocio tra teatro e cinema in una forma che mi piace definire "critica". Critica nei confronti della globalizzazione strisciante di oggi, e soprattutto critica nei confronti di una frammentazione dell'identità che sta toccando punte davvero preoccupanti. Non sarebbe stato difficile dunque fare un film contro la globalizzazione, o a favore di qualcos'altro, ma non lo avrei mai potuto fare. Se spunti di riflessione e analisi devono esserci, beh, credo che debbano nascere non tanto da ciò che si vede sullo schermo (il visibile tout court) e che si sente, ma proprio da quelle porzioni di spazio non investite dallo sguardo della macchina da presa. I due protagonisti del film parlano per due ore, quasi ininterrottamente, e di tante cose insieme. Dalla mancanza di lavoro, alla politica, all'esistenza. Fin qui nulla di strano. Accanto a questo tracciato narrativo basato essenzialmente sul valore semantico della parola, ho voluto però affiancare un altro tipo di discorso (quello strettamente cinematografico), un discorso scandito da movimenti di macchina che rappresentano la quintessenza dell'emisfero opposto del teatro, per l'appunto quello del cinema.


Lo scavalcamento in corsa dalla dimensione teatrale a quella filmica è in effetti una delle cifre più autentiche dell'opera. Anche se poi lo sbilanciamento in avanti produce una sorta di particolare sincretismo filmico per cui teatro e cinema sembrano rinascere in nuove forme espressive…


Mi sono chiesto quale sarebbe potuto essere il risultato finale di questo tipo di messinscena e in effetti nemmeno oggi ho una risposta precisa. E' vero che ad un certo punto della visione non si riesce più a capire bene dov'è che finisca il teatro e incominci il cinema e viceversa, ma credo che sia un bene. Mi si presentavano due possibilità: fare del teatro filmato, o girare un film che partisse da un presupposto di tipo teatrale. La prima ipotesi non l'ho presa in considerazione nemmeno un attimo (mi pare un'operazione del tutto insensata), la seconda mi pareva accettabile, ma fino ad un certo punto. Ciò che mi attirava molto era proprio provare a filmare ciò che c'è in mezzo tra il teatro e il cinema, senza scoprire mai troppo le mie carte rappresentative. E' per questo forse che questa forma di sincretismo filmico di cui parla lei nasce proprio laddove ho privilegiato l'assenza piuttosto che l'esibizione, l'ambiguità piuttosto che la chiarezza.

Ci piace molto il titolo del suo film. E' evocativo di un qualcosa che ci sfugge, è come se alludesse a più cose nello stesso tempo…


I fondali sono quelli delle quinte del teatro, quelli che appaiono sulla scena come frammenti in perdita do un mondo che non esiste più. Il mondo dell'avanspettacolo, il mondo del teatro, il mondo di Napoli, forse. Al tempo stesso può anche alludere agli abissi delle profondità marine, dove è sempre notte, dove non c'è la luce a disegnare i contorni di una scena precisa. I miei protagonisti si muovono sui fondali di una rimozione generalizzata del loro essere, sono personaggi in cerca di un autore che forse non esiste più.


Già Pirandello, ma forse anche Beckett…


Non c'è dubbio che la situazione di partenza e di avvio della mia opera si inscriva proprio nell'attesa per qualcosa che non accadrà mai, se non altro in-campo.


Ci sembra poi che in certi momenti vi sia proprio la tendenza a dividere il set (un palcoscenico, peraltro) in due porzioni temporali abbastanza indistinte: da una parte la sfera riguardante il dialogo tra i due protagonisti, dall'altra una sorta di regione primigenia dello sguardo in cui il piano-sequenza disegna dei veri e proprio itinerari di spaesamento, andando a cercare forse nuove storie da raccontare, nuovi squarci da cui farsi agire…


Credo che il piano-sequenza esprima bene lo spirito di questa mia ricerca. Laddove si interrompe il topos teatrale, per sublimarsi in affioramento costante di nuovi set da visitare, questo movimento di macchina, sempre dal basso all'alto, cerca di arrampicarsi proprio nella sommità verticale del set, andandosi a scontrare con l'irruzione-in-campo di figure e motivi appartenenti al sottobosco di tutta la cultura napoletana.

Cultura napoletana, ma per certi versi forse anche memoria di una cultura. Qual è stato il modo in cui ha risolto il problema temporale, con quei continui passaggi dal dialogo ( dimensione del presente), alla folgorazione visiva con squarci dei vecchi film di Edoardo?


Ho semplicemente concepito una sorta di sinfonia ininterrotta in cui il materiale a disposizione andasse a configurare il disegno di un passaggio (quello per l'appunto relativo al passato e al presente) che avviene in-campo proprio per sottolineare in modo evidente l'appartenenza dei due protagonisti al ricordo di quelle voci provenienti da schermi invisibili. Non è stato dunque un problema privilegiare un'unica andatura ritmica del tempo della messinscena, visto che la mia opera si basa proprio essenzialmente sull'azzeramento di ogni matrice temporale definita. Parla dell'oggi, ma anche di ieri, o forse di domani.


A proposito di passaggi, abbiamo notato come la transizione verso uno stadio incerto del tempo narrativo venga sempre segnata dal meraviglioso Intermezzo della Cavalleria Rusticana di Mascagni, ricordo peraltro anche dell'inizio di Toro Scatenato


E' una musica che amo particolarmente, mi sembrava perfetta poi per esprimere certi stati d'animo indescrivibili, avvolti in una dimensione che non è più quella del teatro, né del cinema, soltanto del ricordo. Ho avuto piuttosto diverse difficoltà nell'utilizzare le sequenze dei vecchi film di De Filippo. Avrei inserito volentieri anche L'Oro di Napoli, ma ci sono state delle difficoltà insormontabili per quanto riguarda i diritti. E sinceramente, non sono riuscito a concludere in tempi ragionevoli, visto poi che i ritardi di distribuzione del film (realizzato nel 1998) sono già stati piuttosto considerevoli.


Tempi di uscita molto lunghi, per un film comunque fuori da ogni tempo, soprattutto da quello del mercato…


Molti non credono al fatto che il mio film lo abbia girato in soli diciannove giorni. Grazie alla professionalità di Ranieri e della De Benedetto, sono riuscito a ottimizzare i tempi di lavorazione in modo tale da avere la possibilità di finire il girato in meno di un mese. In realtà il mio è un lavoro che nasce da anni di preparazione, da una sceneggiatura studiata in ogni particolare e soprattutto da una formidabile equipe di tecnici che hanno saputo interpretare al meglio i miei "desideri" artistici.


Parlando di teatro, ci viene in mente un certo Mario Martone, ma anche Antonio Capuano, Paolo Sorrentino e così via. Non a caso comunque, tutti appartenenti a quella che è stata definita come la new wave napoletana. Come si pone nei confronti di questa nuova "onda"?


Apprezzo moltissimo questi miei colleghi, ma credo che non sia giusto parlare di una scuola napoletana, di un gruppo, e così via. Siamo registi molto diversi, autori di un cinema personale, individuale, frutto di esperienze soggettive, dunque non raggruppabili sotto una medesima etichetta.


Cosa si prova a raccontare una storia di fondali semibui che abbracciano le sagome nervose di fantasmi in dissolvenza?


So soltanto che fare cinema non è la mia attività principale, visto che mi occupo di televisione. Quando mi cimento nel dirigere una mia storia per il cinema, avverto che la passione con cui lo faccio mi ripagherà in anticipo di ogni sforzo. Amo comunque i miei fondali. Mi dicono qualcosa di me, di noi. Del mondo.

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