Il Fascino discreto di Robert Altman

“Gosford Park”, il film “inglese” di Robert Altman premiato con un Golden Globe alla regia e un Oscar alla sceneggiatura, ha riportato l’attenzione su di uno dei registi americani più importanti degli ultimi trent’anni. Ne ripercorriamo la carriera dagli anni settanta a oggi

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La carriera di Robert Altman è indiscutibilmente segnata dal conflitto con Hollywood. Nel 1989, in uno dei periodi meno fortunati della sua vita, il regista affermava in un’intervista: “sono ormai ventun anni che non lavoro per Hollywood e ne sono fiero”. In effetti, Altman ha sempre combattuto una sorta di lotta personale contro le major, rifiutando di piegarsi alle logiche che governano il cinema negli Stati Uniti.
Eppure Altman è stato in grado di realizzare alcuni tra i più importanti film americani degli ultimi trent’anni: la sua filmografia contraddistingue in maniera determinante il cinema degli anni Settanta, di cui Altman è stato uno dei principali esponenti e del quale ha contribuito a definire le coordinate. Molti film di quel periodo operano uno scarto con il cinema del passato e segnano una svolta. Pellicole come “M.A.S.H.” (1970), “I compari” (1971), “Il lungo addio” (1973) e “Nashville” (1975) affrontano con maturità e codificano in maniera innovativa i generi cinematografici, e insieme rappresentano una riflessione complessa e strutturata sulla società americana.
Gli anni Ottanta vedono un Altman più ripiegato su se stesso; dopo l’insuccesso di “Popeye” (1981), il regista si dedica al teatro e realizza film tratti da opere teatrali, come “Jimmy Dean, Jimmy Dean” (1982), “Streamers” (1983) e “Follia d’amore” (1985) (dalla collaborazione con il commediografo Sam Shepard). Ma sono anni difficili per Altman, che riduce sempre di più l’attività cinematografica. L’unico lavoro della fine del decennio è la partecipazione al Segmento n. 6 del lavoro collettivo “Aria” (1987).

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Altman progetta però un ritorno in grande stile, che si materializza cinque anni più tardi, con l’uscita di “I protagonisti” (1992). Il film, che si apre con un memorabile piano-sequenza, vede la partecipazione di un numero impressionante di celebrità hollywoodiane, ed è una satira pungente del cinema americano, del quale individua con chiarezza la fine di un’epoca. Il successo di “I protagonisti” permette ad Altman di adattare i racconti minimalisti di Raymond Carver e realizzare “America oggi” (1993), affresco corale della microsocietà americana nella quale prevalgono l’indifferenza e il cinismo. Gli anni Novanta vedono il regista misurarsi con il mondo della moda (“Prêt-à-porter”, 1994), il ritorno nella città natale (“Kansas City”, 1996), l’incursione nel thriller (“Conflitto di interessi”, 1998) e nella commedia “(Il dottor T e le donne”, 2000). E arriviamo così a “Gosford Park”, che Robert Altman ha girato in Inghilterra con attori quasi tutti inglesi. Un film che intreccia le storie di ricchi aristocratici in villeggiatura in una sfarzosa villa immersa nella campagna e dei loro domestici; e che non disdegna l’omaggio ai classici del giallo e l’evocazione di pellicole come “La regola del gioco” di Jean Renoir o “Il fascino discreto della borghesia” di Luis Buñuel. Insieme una grande prova di regia, esemplare nella rappresentazione dicotomica dei “piani alti” della villa, regno degli annoiati aristocratici, e i “piani bassi”, dove invece i domestici si muovono affannosamente e senza sosta.
Pare che l’interesse di Altman per il soggetto fosse dovuto al fatto di non avere mai realizzato un giallo: “… non avevo mai girato un giallo, pur avendo toccato quasi ogni genere cinematografico: amo lavorare sulle categorie per poi dargli un’immagine leggermente diversa.” Questa dichiarazione è particolarmente significativa per comprendere il rapporto di Altman con i generi, al quale abbiamo accennato prima. Ma “Gosford Park” è un giallo atipico, o più precisamente non è “solo” un giallo; alla struttura tipica dei romanzi di Agatha Christie (un caso di omicidio in cui tutti avevano un motivo per uccidere la vittima e quindi tutti sono sospettati, l’unità di luogo – in questo caso una villa –, l’investigatore “sui generis”) si aggiungono altri elementi, che lo rendono un film più complesso e sfaccettato. Dice ancora Altman: “Abbiamo deciso di non girare un giallo vero e proprio, volevamo affrontare le questioni sociali del periodo. […] Così l’abbiamo ambientato […] nel 1932. Si tratta di un’epoca molto interessante per me. Ho vissuto quei giorni e quindi posso affidarmi ai miei ricordi piuttosto che a quelli di qualcun altro.”
Le “questioni sociali del periodo” sono le differenze tra le classi negli anni che precedono la seconda guerra mondiale. “Gosford Park” è uno specchio fedele e attento del rapporto che intercorreva tra gli aristocratici e i loro servitori; un rapporto distante e conflittuale, che il film rappresenta in maniera netta ed elegante dividendo la villa (teatro dell’azione) in due piani distinti. Due piani, superiore e inferiore, che sono anche due mondi inavvicinabili che spesso entrano in contatto, ma sempre segretamente (lo dimostrano le relazioni del padrone della villa con le cameriere, o l’attore americano che si installa al piano inferiore spacciandosi per maggiordomo).
“Gosford Park” è un film corale che riprende la tradizione di film come il già citato “Nashville” (spesso identificato come il film corale per antonomasia) e “Un matrimonio” (1978). La coralità è esaltata dal ricorso ad attori inglesi; così Altman spiega la sua scelta: “penso che questo sia dovuto alla grande vicinanza al teatro che mantengono tutti gli interpreti inglesi, per questo rispondono molto positivamente ai cast corali.”
Altman mostra quindi il “fascino discreto dell’aristocrazia”, le sue debolezze e gli intrighi sotterranei, con uno sguardo impietoso nel mettere a fuoco i (molti) vizi e le (poche) virtù di una classe sociale che a volte sembra vivere soltanto del suo riflesso su quella inferiore.

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